Nel calendario repubblicano, il 2 giugno dovrebbe rappresentare molto più che una semplice giornata di bandiere e parate. È la data in cui, nel 1946, l’Italia scelse la Repubblica, tentando di lasciarsi alle spalle il ventennio fascista e gli orrori della guerra. Ma oggi, in un’Italia apparentemente pacificata e democratica, il vero significato di libertà sembra evaporato come nebbia al sole, ignorato da una generazione che non ha mai dovuto combattere né per la propria dignità né per il proprio futuro.
Le giovani generazioni parlano di libertà come fosse un’app dell’ultimo smartphone, mentre i loro bisnonni, nell’acqua gelida del Piave, si aggrappavano alla vita per respingere l’invasore. Quei fiumi rossi di sangue erano il prezzo della sovranità, non un concetto astratto, ma la concreta possibilità di decidere da soli il proprio destino. Oggi quella stessa parola è ridotta a slogan da spot elettorale, disinnescata, svuotata.
Dov’è finito lo spirito di sacrificio? Dov’è la consapevolezza che la libertà si conquista, si difende, si rinnova ogni giorno? È sepolta sotto la retorica delle istituzioni, sempre più asservite a poteri che non risiedono né a Roma né a Bruxelles, ma nei consigli d’amministrazione di organismi sovranazionali, tecnocratici e irresponsabili. Strutture che non rispondono ai popoli ma li amministrano, come si gestisce un budget o si corregge un indice di borsa.
La nostra Repubblica è nata come atto di rottura, non di compromesso. Era un taglio netto con il passato monarchico, ma anche contro ogni forma di sudditanza culturale, economica e politica. I padri e le madri costituenti non immaginavano un’Italia che dovesse inginocchiarsi di nuovo, questa volta non davanti a un re, ma a potentati senza volto, algoritmi finanziari e diktat burocratici emanati da stanze opache al di fuori del controllo democratico.
Volevano un’Italia libera, pienamente sovrana, fondata sul lavoro, sulla dignità della persona, sull’autodeterminazione popolare. Eppure, oggi, tutto questo è stato disinnescato senza sparare un colpo. Un processo silenzioso, graduale, apparentemente incruento, ma profondamente corrosivo. Abbiamo smarrito il confine tra cooperazione e sottomissione.
Abbiamo ceduto la nostra moneta, accettando che le scelte economiche fondamentali non rispondano più alla volontà popolare, ma a bilanci predefiniti da altri. Abbiamo rinunciato alla politica industriale, lasciando che le nostre aziende venissero smantellate o svendute a interessi stranieri, in nome di una concorrenza “leale” che premia solo i più forti. L’agricoltura, una volta cuore pulsante dell’identità italiana, viene strangolata da regolamenti europei che ne minano la sostenibilità, favorendo logiche speculative e prodotti anonimi, lontani dal territorio. E sulle frontiere, non abbiamo più né parola né controllo: decidono altri chi entra, chi resta, chi transita.
Tutto questo non è stato imposto con la forza, ma accettato con il silenzio, con la passività di un popolo abituato ormai a delegare ogni responsabilità. Ogni cessione di sovranità ci è stata presentata come un passo verso il progresso, verso una modernità indistinta, dove le identità si dissolvono e le decisioni si prendono in nome di una razionalità superiore. Ma non c’è nulla di razionale nello svuotare la democrazia di contenuti, nel ridurre il cittadino a spettatore di un copione scritto da tecnocrati, lobbisti e organismi che nessuno ha eletto.
Chiunque osi oggi invocare una legittima sovranità, viene ridicolizzato o delegittimato come “populista”, “retrivo”, “antieuropeista”. Ma è proprio questo il nodo da affrontare: non esiste libertà senza responsabilità, e non esiste democrazia senza sovranità. L’una è la condizione dell’altra.
Se la Repubblica doveva essere un atto di liberazione, ciò che stiamo vivendo oggi è la sua involuzione silenziosa. Il ritorno, sotto altre forme, di quelle forme di servitù che la Costituzione voleva superare. Non abbiamo più un re, è vero. Ma abbiamo accettato nuovi padroni, molto più astuti: quelli che non si vedono, che non si votano, che non rispondono a nessuno se non al mercato e alla logica del potere globale.
O si spezza questa spirale, o la Repubblica diventerà solo un simbolo svuotato, una bandiera che sventola su un terreno che non ci appartiene più.
Il 2 giugno dovrebbe allora essere l’occasione per una riflessione scomoda, non per una celebrazione anestetizzata. È il momento di chiederci se siamo ancora degni di quella libertà che pretendiamo di festeggiare. Se comprendiamo davvero cosa significa autodeterminazione. Se siamo disposti a pagarne il prezzo, non con la vita forse, come fecero sul Piave, ma almeno con il coraggio civile di opporsi alla deriva.
Non si tratta di nostalgie fuori tempo massimo, ma di una chiamata al risveglio. Perché chi oggi parla di sovranità viene tacciato di anacronismo, quando invece è il più lucido tra gli italiani: perché senza nazioni libere, nessuna unione è possibile, solo una nuova sudditanza.
È tempo che il 2 giugno torni ad essere un simbolo di resistenza e non solo di ricorrenza. Un giorno in cui ricordare che la libertà non è garantita, ma continuamente insidiata. Un giorno in cui riaccendere la fiaccola del dissenso, perché è solo attraverso il sacrificio consapevole e la difesa della sovranità che si può onorare davvero chi cadde sul Piave, e chi sognò una Repubblica libera, non solo di nome.
Perché la libertà, come la patria, non si eredita. Si conquista. Sempre.
Andrea Caldart