In questi giorni si legge, da più parti, la tesi secondo cui Papa Leone XIV, eletto in data 08 maggio 2025, non sarebbe legittimamente Romano Pontefice, in quanto Benedetto XVI (2005-2013), predecessore di Francesco (2013-2025), non avrebbe mai validamente rinunciato al “munus Petrinum”.
Ora, pur nel rispetto delle posizioni contrarie, a me pare che essa si fondi su presupposti errati, tanto sul piano canonistico quanto su quello filosofico.
La teoria che distingue radicalmente “munus” e “ministerium” è del tutto infondata e contraria alla struttura giuridica e metafisica dell’ufficio petrino. Tale tesi, oltre ad essere giuridicamente irricevibile, implica una concezione gnostica e soggettivista del papato, assolutamente incompatibile con l’ecclesiologia cattolica. Ai sensi del canone 332, paragrafo 2, del Codice di Diritto Canonico vigente del 1983 «Si contingat ut Romanus Pontifex muneri suo renuntiet, ad validitatem requiritur ut renuntiatio libere fiat et rite manifestetur, non vero ut a quoquam acceptetur».
Il legislatore canonico stabilisce, come si evince, che per la validità della rinuncia è necessario e sufficiente che essa sia compiuta liberamente (“libere fiat”) e debitamente manifestata (“rite manifestetur”). Non si prescrive né la forma scritta, né una terminologia tecnica predeterminata. La cosiddetta “declaratio” di Benedetto XVI redatta per iscritto costituisce, pertanto, solo un mezzo di manifestazione e non una condizione ontologica della rinuncia. L’atto di volontà rinunciataria, purché pubblico e inequivoco, è giuridicamente sufficiente a produrre la vacanza della sede apostolica, in quanto atto unilaterale e “res inter alios acta”. In questa prospettiva, l’opposizione fra “munus” e “ministerium” risulta priva di rilievo canonico. Sebbene i due termini siano teologicamente distinguibili (il “munus” designa l’ufficio nella sua radice giuridica e sacrale; il “ministerium” il suo esercizio concreto), essi non sono separabili né ontologicamente, né giuridicamente. L’ufficio petrino non è una “forma subsistens” che possa sopravvivere in un soggetto senza manifestarsi in alcun modo. Il diritto canonico, come ogni ordinamento razionale, riconosce e valuta gli atti sulla base dei loro effetti giuridici e della volontà manifestata, non sulla base di speculazioni semantiche sganciate dalla realtà dell’azione. Benedetto XVI ha pubblicamente dichiarato la cessazione del suo servizio quale Vescovo di Roma e Successore di Pietro: ciò, agli occhi della Chiesa, ha comportato la cessazione del “munus”, non una semplice sospensione funzionale.
La distinzione proposta da alcuni ambienti tra “munus” conservato e “ministerium” lasciato cadere costituisce una forma di nominalismo giuridico che destruttura la realtà stessa dell’ufficio ecclesiastico. Detto diversamente, tale separazione introduce una frattura insostenibile tra l’essere e l’agire. Secondo il principio metafisico classico, “operari sequitur esse”, non vi può essere un soggetto che sia titolare dell’ufficio (essere Papa) e che, al contempo, rinunci legittimamente e irrevocabilmente a ogni forma di esercizio senza che ciò comporti la cessazione stessa dell’ufficio. Questo significherebbe introdurre una specie di potere “inerte”, esistente in potenza ma non più attuabile: una forma di “actus non exercitus” che non ha corrispondenza nel diritto e che viola la nozione stessa di autorità ecclesiale. Il papato non è un’essenza personale, quanto un ufficio pubblico conferito da Cristo mediante l’elezione canonica e cessante per morte o rinuncia. L’autorità pontificia non può sopravvivere in uno stato puramente intenzionale o spirituale, come se fosse un carisma indelebile. Una volta manifestata la rinuncia, efficacemente recepita dalla Chiesa, l’ufficio si estingue “ipso iure” e la sede si considera legittimamente vacante.
A ciò si aggiunga che, secondo la teologia classica (cfr. Bellarmino, Suarez, Cajetanus), il riconoscimento pacifico e universale da parte della Chiesa del nuovo Papa costituisce “signum infallibile legitimitatis”.
Leone XIV, successore eletto secondo le norme canoniche e pacificamente accolto dalla “Ecclesia universalis”, gode di tale riconoscimento visibile e morale.
Affermare che egli sia un antipapa, sulla base di presunti codici linguistici celati in una dichiarazione di dodici anni prima, equivale a negare che la Chiesa visibile possieda i mezzi per determinare e conoscere con certezza il proprio capo: si introduce così un’ecclesiologia esoterica e volontarista, che contraddice l’essenza visibile, giuridica e sacramentale della Chiesa cattolica. Da ultimo, la pretesa che il “munus” sia rimasto “intatto” in Benedetto XVI e che Francesco, di conseguenza, sarebbe rimasto privo della titolarità giuridica della Sede Romana implica una visione scismatica e dualistica del papato: da un lato, un Papa “in potenza”, silenzioso e nascosto; dall’altro, un “falso papa”, visibile e attivo.
Ora, la teologia cattolica conosce un solo successore di Pietro alla volta: la “successio Petri” è personale, univoca e indivisa. L’attribuzione di un “munus” ancora vigente a un papa emerito equivale, nella sostanza, a ritenere che la Chiesa abbia errato universalmente nel riconoscere il proprio capo visibile.
È questo il vero errore ecclesiologico: quello di porre la validità della successione apostolica sotto il giudizio privato, dissolvendo la certezza morale e giuridica dell’autorità nella soggettività individuale. In definitiva, prima Francesco e poi Leone XIV sono legittimamente e validamente Romani Pontefici. Le tesi che ne contestano la legittimità si fondano su una errata concezione del diritto canonico, che confonde la manifestazione dell’atto con la sua validità, e su una visione filosoficamente incoerente dell’ente istituzionale, che separa ciò che per sua natura deve rimanere unito: l’essere e l’agire, l’ufficio e il suo esercizio, la visibilità e la realtà. La rinuncia di Benedetto XVI è stata libera, pubblica, sufficientemente manifestata e non necessitava di alcuna forma scritta (eventuali possibili condizionamenti attengono al foro interno che, in questo caso, non rileva per lo “ius canonicum”) o formula rituale per essere efficace. Ogni interpretazione alternativa va, pertanto, respinta come contraria alla retta ragione e alla costituzione visibile della Chiesa fondata da Cristo.
Prof. Daniele Trabucco – Costituzionalista
In collaborazione con: www.gazzettadellemilia.it