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Gaza: la strage degli innocenti

Ci sono immagini che nessuna coscienza dovrebbe sopportare, eppure sono davanti ai nostri occhi: bambini sepolti sotto le macerie, ospedali distrutti, famiglie smembrate da missili. A Gaza, la tragedia ha superato il limite del sopportabile, il confine dell’umanamente giustificabile. Quel che per molti accade da mesi, in verità da decenni, non è una guerra nel senso tradizionale: è un genocidio. È il massacro sistematico e calcolato di un popolo, e il mondo assiste in silenzio. Alcuni voltano lo sguardo. Altri lo giustificano. Pochissimi lo denunciano con la forza e la chiarezza necessaria.

Gaza è quel che restava dopo l’usurpazione del territorio della Palestina, definita da Human Rights Watch come la più grande prigione a cielo aperto del mondo, controllata da Israele, delimitata da filo spinato, senza un governo e nemmeno un esercito, ma solo la “guida” di Hamas che in più rapporti internazionali si è scoperto essere un’organizzazione sovvenzionata anche da Israele.

Da un lato uno delle principali potenze militari al mondo con un esercito all’avanguardia, appoggiato dagli Stati Uniti, dall’altra parte i palestinesi bassi, a mani nude, scalzi, denutriti; un contrasto davvero stridente con i miliziani di Hamas, statuari, palestrati, super armati e sempre nascosti dietro il passamontagna.

La brutalità con cui lo Stato israeliano colpisce Gaza non ha più nulla di difensivo. È offensiva pura, sistematica, strategica. È l’esercizio di una violenza pianificata, chirurgica solo nel senso più atroce: taglia le vie di fuga, interrompe la sopravvivenza, mira al cuore stesso della vita. Si distruggono ambulanze, si bombardano scuole, si incendiano sogniNon si combatte Hamas: si punisce un intero popolo. Un milione di bambini, rinchiusi in una trappola senza acqua né futuro, pagano il prezzo di una politica costruita sull’odio.

Si parla di “danni collaterali”. Ma qui non c’è nulla di collaterale: i civili sono bersaglioIl pane viene distrutto, non per errore, ma per affamare. L’acqua viene interrotta per assetare. L’elettricità viene tagliata per isolare. Gli ospedali vengono bombardati per terrorizzare. La sopravvivenza viene presa di mira come un obiettivo militare. È la logica del castigo collettivo, quella vietata dalle convenzioni internazionali e sdoganata nel nome della sicurezza. Ma non c’è sicurezza nell’annientamento: c’è solo la semina dell’odio, la certezza che forse non sopravviverà proprio nessuno.

Secondo stime non ufficiali i morti non sono 60.000, ma circa mezzo milione di palestinesi. Donne, uomini e bambini uccisi brutalmente senza nessuna logica se non quella di impossessarsi della loro terra, da parte dell’avidità spregiudicata sionista.

Israele si è trasformato in ciò che diceva di combattere. Ha preso il dolore delle proprie ferite storiche e lo ha trasformato in diritto di distruggere. Ma il trauma non giustifica il crimine. L’orrore subito non autorizza l’orrore inflitto. Oggi chi dissente viene accusato di antisemitismo, come se criticare uno Stato significasse odiare un popolo. No: ciò che si denuncia è un progetto disumano, una politica di annientamento che ha perso qualsiasi contatto con l’umanità.

Non è difesa. È vendetta. È dominioÈ la trasformazione dell’odio in dottrina di Stato. Gaza viene massacrata sotto gli occhi del mondo, mentre le capitali occidentali, complici o codarde, balbettano giustificazioni o sventolano l’ambigua retorica del “diritto di Israele a difendersi”.

Ma che diritto è, quello che calpestare ogni altro diritto? Che sicurezza è, quella che si costruisce sui corpi dei bambini?

Nessun popolo, nessuna religione, nessuna nazione può legittimare tutto questo. Chi giustifica l’orrore, ne diventa parte. Chi lo tollera, lo alimenta. E chi lo ignora, oggi, sta voltando le spalle non solo ai palestinesi, ma all’intera idea di civiltà.

Perché quando l’odio diventa norma, e la crudeltà diventa strategia, il genocidio non è più una minaccia futura: è già in corso. E lo stiamo guardando accadere.

Eppure, questo conflitto non è nato ieri. Dura da più di 80 anni. E forse è questo il punto più doloroso: abbiamo avuto tempo, generazioni intere, per costruire la pace. Non l’abbiamo fatto. Abbiamo lasciato crescere l’odio come una pianta velenosa, irrigandola con l’indifferenza, con la retorica, con la politica cieca e complice.

Israele e Palestina sono diventati simboli di una guerra spregevole: quella tra l’uomo e l’altro, tra l’identità e la convivenza, tra la paura e la speranza. In quella terra ferita, l’essere umano sembra aver dimenticato sé stesso. Il sangue non ha più valore. La vita è diventata merce politica. La morte, un linguaggio quotidiano.

Il paradosso più atroce è che tanto orrore si consuma sotto gli occhi di un mondo iperconnesso, dove tutto si sa, tutto si vede. Non possiamo dire “non lo sapevamo”, come si disse dopo altri genocidi. Stavolta sappiamo. Ogni notizia, ogni foto, ogni video è una condanna a chi guarda e non agisce.

La domanda che dobbiamo porci non è più “chi ha ragione”, ma “quanta umanità ci resta”. Quanto siamo disposti a tollerare prima di dire basta, davvero basta, a questa spirale di odio che annienta popoli interi, generazioni, futuro?

Gaza non è un “problema geopolitico”. È il segno di quanto l’umanità sia diventata inumana e amorfa di fronte alla tragedia della cancellazione di un popolo.

Se non troviamo ora il coraggio di fermare il genocidio, se non troviamo ora la forza di fermare l’odio e pretendere la pace, giusta, equa, reale, allora dobbiamo guardarci allo specchio e chiederci: ma davvero è questo il mondo?

Andrea Caldart

Fuori dal Silenzio

SatiQweb

dott. berardi domenico specialista in oculistica pubblicità

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