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Il presidente degli Stati Uniti d’America non può entrare in guerra contro la Repubblica Islamica dell’Iran senza l’autorizzazione del congresso 

L’architettura costituzionale degli Stati Uniti d’America assegna in modo esplicito al Congresso federale, e non al Presidente, il potere di dichiarare guerra. 

L’articolo I, sezione 8, clausola 11 della Costituzione degli Stati Uniti del 1787 è inequivocabile: «Il Congresso avrà il potere di dichiarare guerra»

Questa disposizione, frutto della volontà dei Padri fondatori di evitare una concentrazione eccessiva del potere militare nelle mani dell’Esecutivo, esperienze ben conosciute in epoca monarchica britannica, costituisce il fondamento giuridico della limitazione del Presidente in materia di iniziativa bellica. 

Lungi dall’essere una clausola meramente formale, essa rappresenta il fulcro di un sistema di bilanciamento dei poteri volto a impedire che una decisione potenzialmente catastrofica venga assunta unilateralmente. 

Il Presidente, in qualità di Commander in Chief delle forze armate (articolo II, sezione 2), ha senza dubbio l’autorità operativa di dirigere le azioni militari una volta che esse siano state autorizzate dal Congresso. Tuttavia, tale funzione non può e non deve essere interpretata come un’autorizzazione permanente a intraprendere operazioni ostili contro Stati esteri in assenza di una previa deliberazione congressuale. L’uso della forza, quando rivolto contro un’entità sovrana che non ha aggredito gli Stati Uniti, richiede un chiaro mandato legislativo. 

La guerra preventiva o la rappresaglia unilaterale, se non determinata da un’immediata necessità difensiva, si configura come una violazione della struttura costituzionale. 

I sostenitori di una lettura estensiva delle prerogative presidenziali adducono, a sostegno della loro tesi, l’esigenza di rapidità e flessibilità nelle decisioni militari in un contesto geopolitico complesso e in rapido mutamento. 

Tuttavia, questa obiezione, pur rilevando una problematica reale sul piano pratico, non può sovvertire l’assetto normativo vigente. 

Il War Powers Resolution Act del 1973, adottato proprio per porre un freno agli interventi unilaterali dell’Esecutivo dopo le derive della guerra del Vietnam, stabilisce limiti temporali stringenti all’uso della forza senza autorizzazione del Congresso, riconoscendo esplicitamente che solo quest’ultimo può legittimare formalmente un’azione bellica su larga scala. 

Una delle obiezioni più frequentemente sollevate è che, in quanto responsabile della sicurezza nazionale, il Presidente debba avere la possibilità di colpire preventivamente minacce percepite. 

Tuttavia, questa posizione, se portata alle estreme conseguenze, risulterebbe eversiva dell’ordine costituzionale. Essa autorizzerebbe, de facto, un potere imperiale del Presidente, contravvenendo al principio repubblicano secondo cui le decisioni fondamentali in materia di guerra e pace devono essere assunte da un organo rappresentativo. L’elasticità delle minacce, sempre più ibride e asimmetriche, non giustifica l’abbandono di criteri formali: al contrario, proprio in un contesto incerto, la necessità di legittimazione parlamentare diventa essenziale per evitare l’arbitrio e garantire la responsabilità politica. Inoltre, è del tutto infondata l’argomentazione secondo cui le autorizzazioni generiche del Congresso, come l’AUMF (Authorization for Use of Military Force) del 2001, costituirebbero un lasciapassare permanente per qualunque operazione militare successiva. 

Tali autorizzazioni, redatte in un contesto preciso e con riferimento a soggetti identificati (i responsabili degli attacchi dell’11 settembre 2001), non possono essere forzatamente estese ad altri contesti geopolitici o a Stati sovrani che non abbiano compiuto atti ostili contro gli Stati Uniti. Un impiego siffatto di tali risoluzioni tradisce il principio di legalità e si configura come abuso di mandato. L’eccezione dell’autodifesa immediata, garantita sia dal diritto internazionale (art. 51 della Carta ONU del 1945) sia dalla consuetudine, non è qui in discussione. 

Quando un attacco armato è in corso o chiaramente imminente, il Presidente può agire per proteggere il Paese. Tale eccezione, però, non può divenire la regola, né trasformarsi in giustificazione per aggressioni preventive contro Stati che non abbiano compiuto atti ostili come nel caso della Repubblica islamica dell’Iran. 

Le parole “imminente” e “necessario” non possono essere diluite fino a perdere ogni significato, pena la rottura dell’equilibrio costituzionale e del diritto internazionale. Il rispetto della separazione dei poteri impone, dunque, un’interpretazione restrittiva dei poteri bellici del Presidente. Qualsiasi azione militare offensiva contro uno Stato sovrano che non abbia attaccato gli Stati Uniti richiede, per essere legittima, un’autorizzazione esplicita del Congresso. 

Ogni lettura contraria non solo altera l’equilibrio dei poteri delineato dalla Costituzione, ma espone la nazione al rischio di guerre non necessarie, sottratte al controllo democratico. In uno Stato di diritto, nemmeno il fine della sicurezza può giustificare la sovversione delle regole. La fedeltà all’ordine costituzionale esige che il potere di guerra resti saldamente nelle mani dell’organo rappresentativo della volontà popolare: il Congresso.

Prof. Daniele Trabucco – Costituzionalista

In collaborazione con: www.gazzettadellemilia.it

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