L’Iran sotto accusa, Israele intoccabile. Il Trattato di Non Proliferazione ignorato da chi possiede davvero la bomba. E il mondo, quello fuori dal nostro specchio deformante, se ne è accorto.
C’è una parola che negli ultimi decenni è stata usata fino alla nausea in ogni dichiarazione di leader occidentali, in ogni editoriale di facciata, in ogni vertice diplomatico dal volto presentabile: credibilità. Eppure, mai come oggi questa parola suona vuota, se non addirittura offensiva, agli occhi di chi osserva i fatti, non la propaganda, su scala globale.
Prendiamo un caso da manuale: l’Iran e Israele.
L’Iran non ha armi atomiche. Questo non lo dicono le “solite fonti sospette” o qualche blogger ribelle. Lo dice l’AIEA, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, la stessa che per anni ha condotto ispezioni continue nelle strutture iraniane. E fino al 2018, quando gli Stati Uniti di Trump hanno stracciato l’accordo JCPOA, senza alcuna violazione formale da parte iraniana, Teheran ha rispettato i limiti imposti.
Israele, invece, le armi nucleari le ha. Decine, forse centinaia, secondo le stime. Le ha sviluppate in segreto, con il silenzio assenso degli alleati occidentali. Non ha mai firmato il Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP). Non ha mai accettato ispezioni. E nonostante questo, mai un editoriale scandalizzato, mai un richiamo ufficiale, mai una sanzione.
È evidente l’arroganza di chi si ritiene autorizzato a detenere pericolose armi nucleari, mentre allo stesso tempo, magari anche per interposta persona, esige che tali armamenti siano negati ai Paesi vicini, bollati a priori come minacciosi solo perché musulmani. Questi ultimi, un giorno, potrebbero fare la stessa tragica fine dei palestinesi: trattati come carne da macello per consentire ad altri di impossessarsi delle loro terre. La dinamica tra aggressore e aggredito è chiara, eppure nessuno sembra indignarsi. Forse perché in gioco ci sono troppi interessi geo-finanziari e oscuri equilibri politici?
E ormai come al solito la “minaccia” è sempre e solo quella che conviene.
Nel discorso pubblico occidentale, l’Iran è “la minaccia esistenziale”, l’asse del male, il paese che destabilizza il Medio Oriente. Israele, invece, resta il “baluardo della democrazia”, anche quando bombarda ospedali, uccide migliaia di civili, calpesta sistematicamente il diritto internazionale.
Perché questo doppio standard viene occultato, minimizzato, manipolato. I media “mainstream” raramente osano mettere in discussione la narrativa dominante. E quando lo fanno, è con cautela, con mille distinguo, con il timore di essere accusati di antisemitismo o antiamericanismo, due bollini pronti all’uso per sterilizzare ogni critica.
Ma chi guarda da fuori, dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina, vede bene l’ipocrisia. Vede l’Occidente predicare “regole internazionali” mentre le viola a piacimento. Vede chi impone sanzioni contro l’Iran chiudere entrambi gli occhi davanti alle violazioni israeliane. Vede chi si riempie la bocca di “diritti umani” armare regimi repressivi quando tornano utili ai propri interessi.
E allora, che credibilità ha ancora l’Occidente?
Nessuna, o quasi. La narrativa della “comunità internazionale” non regge più, perché è evidente che per “comunità internazionale” si intendono solo i Paesi NATO e qualche alleato obbediente. Il resto del mondo è relegato al ruolo di pericoloso estremista, se non di bersaglio.
Questa perdita di credibilità non è solo un problema morale: è una bomba a orologeria politica. Un ordine globale basato su regole rispettate solo quando fanno comodo a chi le detta, non può reggere a lungo. E infatti si sta sgretolando sotto i nostri occhi, mentre nuovi equilibri si formano altrove, senza di noi, contro di noi.
Il giornalismo che tace su queste contraddizioni non è “responsabile”. È complice. Chiunque rifiuti di raccontare la realtà dei fatti per il timore di “disturbare l’alleato” o “minare l’unità occidentale” non fa informazione: fa disinformazione. E in questo clima, chi dice ciò che è sotto gli occhi di tutti viene bollato come radicale, estremista, nemico.
Ma la vera radicalità è fingere che la verità non esista.
E allora basta con le menzogne edulcorate preconfezionate. Basta con la complicità di testate che si definiscono “libere” ma sono prigioniere dell’ideologia dominante. Basta con un giornalismo che si indigna solo quando gli ordini arrivano da Washington o Bruxelles.
Se vogliamo riprenderci un minimo di credibilità, dobbiamo cominciare da qui: dire le cose come stanno. Tutte. Anche quando fanno male. Anche quando non convengono.
Solo allora, forse, potremo pretendere di essere presi sul serio. Dal resto del mondo, e da noi stessi.
Andrea Caldart