In Sardegna da molti mesi si respira aria di lotta. Una lotta che si articola tra assemblee pubbliche, manifestazioni e una crescente mobilitazione civile contro l’installazione massiva di parchi eolici e fotovoltaici da parte di multinazionali e grandi gruppi energetici.
Al centro della contestazione di questi giorni c’è il progetto Tyrrhenian Link, un elettrodotto sottomarino da 3,7 miliardi di euro, progettato da Terna, che collegherà Sardegna, Sicilia e il sud Italia tramite un doppio cavo lungo 970 km.
Secondo i promotori del progetto, questa infrastruttura è un tassello fondamentale per il cosiddetto “grande reset” della transizione energetica italiana, facilitando la distribuzione di energia prodotta da fonti rinnovabili. Ma per molti sardi rappresenta l’ennesimo esempio di sfruttamento esterno e di furto di risorse alla comunità locale, nonché di distruzione del paesaggio naturale e di sottrazione delle terre agli agricoltori sardi.
“Non possiamo accettare che decisioni così impattanti per il nostro territorio siano prese sopra le nostre teste e senza il nostro consenso. Questa non è transizione energetica, è colonialismo moderno” dichiarano i rappresentanti di movimenti locali come Pro Terra Sarda.
La denuncia è chiara: l’installazione di pale eoliche, parchi fotovoltaici e mega infrastrutture energetiche, stanno trasformando il paesaggio sardo in un “deserto industriale”, un saccheggio in pieno stile colonialista.
I critici sottolineano che la Sardegna, da sempre una terra ricca di bellezza naturale e cultura millenaria, rischia di perdere la propria identità a favore di interessi economici esterni. “Questa è una politica di rapina che ignora completamente le comunità locali, le loro esigenze e la loro storia”, spiegano gli attivisti.
I sardi, un popolo che nei secoli ha resistito a invasioni e dominazioni, si sentono nuovamente chiamati a difendere la propria terra.
La questione, però, non è solo culturale o identitaria. Secondo i comitati locali, il modello di produzione energetica proposto non è sostenibile né giusto. “L’energia dovrebbe essere gestita dalle comunità, non da colossi privati o dallo Stato centralizzato, che spesso agisce come un predatore più che come un tutore del bene pubblico”, ribadiscono i manifestanti.
Le critiche vanno oltre la Sardegna. Gli attivisti sottolineano come questa “transizione verde” sia in realtà un’illusione. “Non si mettono mai in discussione i consumi, le emissioni o gli sprechi del modello industriale attuale. Si pretende invece di sovraccaricare territori come il nostro, già marginalizzati e sfruttati, con progetti intensivi e centralizzati. Questo non è un cambiamento di sistema, è un’aggressione travestita da progresso” sostiene Paolo, docente universitario e attivista.
La Sardegna non è sola in questa battaglia. Movimenti simili si registrano in altre regioni italiane e in Europa, dove le comunità locali lottano per mantenere il controllo sulle proprie risorse.
Tuttavia, l’isola rappresenta un caso emblematico per la sua storia e per la centralità del paesaggio nella vita della popolazione.
La mobilitazione sarda non riguarda solo il presente, ma il futuro di un popolo che si definisce libero e fiero.
E, come dimostra la crescente partecipazione alle proteste, i sardi non hanno intenzione di arrendersi. “Questa terra è nostra e lo sarà sempre”, dichiarano i manifestanti, uniti sotto un unico grido: “Mai più colonialismo energetico”.
Queste che si vogliono far passare come innovazioni energetiche non sono orientate al miglioramento del benessere collettivo, bensì al solo profitto di pochi con la distruzione di un paesaggio naturale unico al mondo e l’accaparramento delle risorse naturali della Terra di Sardegna, ignorando scientemente i danni economico-sociali, appagando l’appetito bulimico di una modernità per pochi.
Andrea Caldart
Foto: credits dal web