Nel discorso rivolto al Sacro Collegio il 10 maggio 2025, Papa Leone XIV, regnante dall’ 08 maggio 2025, ha inteso marcare una linea di continuità simbolica e programmatica con Leone XIII, il Pontefice (dal 1878 al 1903) della “Rerum Novarum” del 1891, collocando così il proprio magistero all’interno di una tradizione che guarda al sociale non come mero ambito d’intervento pastorale, ma come espressione ordinata della razionalità naturale e della giustizia oggettiva.
Nella scelta del nome pontificale si manifesta, dunque, una visione del pontificato come esercizio di ragione pratica finalizzato al bene comune, fondato su un’antropologia realista e su una metafisica dell’essere, in netta discontinuità con l’immanentismo e il funzionalismo propri di molte categorie moderne.
Il richiamo a Leone XIII assume così il valore di una rivendicazione ontologica: l’ordine sociale, oggi profondamente scosso dalle dinamiche della quarta rivoluzione industriale e dall’emergere di paradigmi post-umani, deve essere ricondotto all’ordine naturale, inscritto nella creazione e conoscibile dalla retta ragione. Tuttavia, questa prospettiva, pur solida e nobile nella sua intenzione, appare, nel medesimo discorso, innervata da elementi di continuità con un impianto teologico-pastorale che ha caratterizzato il problematico pontificato di Francesco (2013-2025) e che merita di essere sottoposto a revisione critica.
Il costante riferimento all’ Esortazione Apostolica “Evangelii gaudium” del 2013 e alla categoria di sinodalità, se non rettamente intesi, rischiano di reimmettere, anche nel nuovo pontificato, gli stessi presupposti problematici: la subordinazione della dottrina alla prassi, la dissoluzione del Magistero nel consenso assembleare, la trasformazione della missione ecclesiale in dialogo senza verità. In questo senso, l’apparente convergenza con l’eredità di Francesco non può che sollevare interrogativi filosofici profondi circa l’identità stessa della Chiesa: è possibile una pastorale che non sia fondata sulla metafisica dell’essere e sulla teologia del Logos?
È legittima una prassi ecclesiale che si emancipi dal vincolo della verità oggettiva? La risposta a tali interrogativi si trova nel riconoscimento della Verità come categoria prima e regolativa dell’agire ecclesiale. La Verità non è un concetto fra gli altri, ma la struttura ontologica dell’essere, ciò che precede e fonda ogni azione redentiva.
È in questa direzione che l’opera di Romano Amerio (1905-1997) e di Brunero Gherardini (1925-2017) assume oggi una pregnanza decisiva: entrambi hanno denunciato la deriva soggettivista e storicista nella ricezione del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), evidenziando la rottura epistemologica introdotta da una concezione fluida del Magistero.
Amerio, in particolare, ha mostrato come la perdita della nozione di “identitas” dottrinale abbia condotto a una mutatio incompatibile con la natura stessa della fede cattolica. Gherardini, dal canto suo, ha indicato con insistenza la necessità di un’ermeneutica del Concilio alla luce della Tradizione perenne, fondata su una teologia definitoria e non aperta al pluralismo dell’opinione.
In tale contesto, il nome Leone XIV potrà davvero realizzare il suo significato programmatico solo se saprà coniugare il coraggio della fedeltà alla Tradizione con la lucidità metafisica necessaria a discernere gli errori del presente. L’omaggio a Leone XIII non potrà esaurirsi in una citazione, ma dovrà incarnarsi in una “rectificatio” del pensiero ecclesiale, là dove esso si è smarrito nei meandri dell’indistinto e dell’indeterminato. Solo la Verità, infatti, fonda la libertà e redime la storia.
Prof. Daniele Trabucco – Costituzionalista
In collaborazione con: www.gazzettadellemilia.it