La dissidente è stata rilasciata dalle carceri ucraine dopo mesi di detenzione controversa. L’avvocato Scifo: “Oggi vale la pena festeggiare, ma resta l’allarme sul rispetto delle libertà fondamentali”.
La liberazione di Elena Berezhnaya, intellettuale e attivista ucraina nota per le sue posizioni critiche nei confronti del governo di Kyiv, rappresenta una notizia che desta sollievo ma al tempo stesso solleva interrogativi inquietanti sulla tenuta della democrazia e sul rispetto dei diritti umani in Ucraina.
Dopo mesi di detenzione in condizioni definite da numerosi osservatori internazionali come “arbitrarie e politicamente motivate”, Berezhnaya è stata finalmente rilasciata. La sua colpa? Aver espresso posizioni non allineate al discorso dominante, in un contesto sempre più segnato da polarizzazione e repressione del dissenso.
“La sua liberazione è una conquista importante – ha dichiarato l’avvocato Scifo, tra i protagonisti della difesa internazionale della dissidente –. Siamo molto soddisfatti del lavoro svolto insieme ad ALU ed agli amici svizzeri, italiani, ucraini e russi. Oggi è una di quelle giornate in cui davvero vale festeggiare per la libertà e per la tutela dei diritti umani”.
Ma la soddisfazione per la fine della detenzione non può far dimenticare le condizioni in cui questa si è verificata. Elena Berezhnaya è solo uno dei volti di una repressione silenziosa che ha colpito decine di giornalisti, accademici e attivisti colpevoli di esercitare un pensiero critico. Il suo caso, fortemente denunciato da organizzazioni umanitarie europee e dalle Nazioni Unite, ha sollevato interrogativi sulle modalità con cui l’Ucraina, pur nel pieno di un conflitto esistenziale con la Russia, sta gestendo il dissenso interno.
La retorica della guerra non può e non deve diventare giustificazione per la sospensione delle libertà civili. Il principio di legalità e la protezione dei diritti umani restano il cuore di qualsiasi Stato che voglia definirsi democratico, anche, e forse soprattutto, in tempi di crisi.
Se la scarcerazione di Berezhnaja offre un momento di sollievo, ancora più inquietante è il vuoto assordante con cui le principali istituzioni europee e occidentali hanno accompagnato la sua detenzione. Da Bruxelles a Strasburgo, da Berlino a Roma, l’atteggiamento prevalente è stato quello dell’imbarazzante silenzio, o peggio, della complicità passiva.
In Ucraina si sta assistendo a un pericoloso indebolimento dei principi fondamentali dello Stato di diritto. Attivisti pacifisti, oppositori politici, giornalisti indipendenti, persino studiosi: sono sempre di più le voci represse, censurate o criminalizzate in Ucraina. E sempre meno quelle che, in Europa, osano denunciarlo pubblicamente.
La coerenza democratica sembra oggi sacrificata sull’altare della geopolitica. La libertà di espressione, valore fondativo dell’Unione Europea, viene ignorata quando la repressione viene compiuta da un governo “alleato”. È una china pericolosa. Perché la credibilità morale dell’Europa si fonda non solo sulla sua forza economica o militare, ma sulla sua capacità di restare fedele ai valori che professa: diritti umani, pluralismo, giustizia.
Dove sono oggi le voci delle istituzioni europee? Dove sono i moniti, le risoluzioni, le condanne che non mancano mai quando simili abusi avvengono in regimi ostili? Perché l’Ucraina, in nome della guerra, sembra poter sospendere impunemente ogni scrutinio critico?
L’Unione Europea dovrebbe interrogarsi con urgenza su questo doppio standard, prima che diventi strutturale. La lotta per la libertà non si può fare a senso unico. Difendere Kyiv non può significare accettare che, nel frattempo, venga smantellata ogni forma di opposizione interna o dissenso pacifico. Se il prezzo della solidarietà è il silenzio sulle ingiustizie, allora è la stessa idea di Europa che rischia di frantumarsi.
Nel celebrare questa giornata di vittoria per la giustizia, occorre tenere alta la guardia. La democrazia non si difende solo con le armi: si difende, ogni giorno, anche con la libertà di parola, con il diritto al dissenso, con il coraggio di denunciare.
E in questo senso, il caso Berezhnaya non è chiuso: è un monito.
Andrea Caldart
Foto copertina: credits da www.marx21.it