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L’inganno della sovrapposizione: perché antisionismo non è antisemitismo 

Nel dibattito contemporaneo, caratterizzato da una crescente confusione semantica e concettuale, è diventato urgente ristabilire la distinzione, storicamente, filosoficamente e giuridicamente fondata, tra antisemitismo e antisionismo, troppo spesso, e in modo indebito, sovrapposti nel discorso pubblico e mediatico. 

Questa sovrapposizione non è neutra, né frutto di un semplice errore concettuale, ma risponde a una precisa strategia retorico-politica volta a immunizzare il progetto sionista da ogni critica, trasformando ogni opposizione a esso in una forma di odio razziale o religioso. 

In tale contesto, l’uso strumentale dell’accusa di antisemitismo finisce per indebolire la lotta autentica contro l’antisemitismo stesso, negando legittimità ad analisi politiche, giuridiche o morali che, muovendosi nel solco della ragione naturale e del diritto delle genti, intendono interrogare il fondamento e le pratiche dello Stato d’Israele.

Ora, l’antisemitismo, propriamente inteso, è una forma di odio verso il popolo ebraico in quanto tale, ossia una condanna pregiudiziale della sua identità etnica o religiosa, a prescindere da qualsiasi comportamento concreto o scelta politica. Si tratta, pertanto, di una posizione che contraddice radicalmente i principi del diritto naturale classico, secondo cui ogni uomo, in quanto persona razionale, possiede una dignità intrinseca, indipendente da appartenenze culturali, confessionali o etniche. 

L’antisemitismo, come ogni forma di razzismo, nega questo principio primo della giustizia naturale, secondo cui la comune umanità precede ogni differenza storica e rappresenta una degenerazione dell’intelligenza politica, oltre che una colpa morale. La sua condanna, pertanto, non è frutto di una mera convenzione culturale o di un’opportunità storica, ma si fonda sul riconoscimento razionale di un ordine morale oggettivo, universale e vincolante.

Altra cosa, invece, è l’antisionismo, che consiste nella critica, più o meno radicale, al progetto politico sionista, ovvero alla dottrina e alla prassi che hanno condotto alla costituzione dello Stato d’Israele e che ne sostengono la legittimità ideologica e geopolitica. 

Il sionismo, nato nell’alveo dei nazionalismi ottocenteschi e rafforzatosi nel contesto tragico delle persecuzioni antiebraiche, si configura come un progetto politico moderno, che mira a fondare uno Stato nazionale per il popolo ebraico nella terra storicamente identificata con la Palestina. 

In quanto tale, esso è legittimamente passibile di critica, secondo i criteri della filosofia politica, del diritto internazionale e della giustizia storica. 

Contestare il sionismo (le contestazioni vengono anche dall’interno dello stesso mondo ebraico. Si pensi, ad esempio, ai Neturei Karta che ripudiano in toto l’idea stessa di uno Stato ebraico), specie nei suoi sviluppi contemporanei, significa interpellare la liceità morale e giuridica di una dottrina che, nel nome di un’identità etno-religiosa, ha giustificato l’espropriazione di terre, l’espulsione di popolazioni autoctone, la costruzione di un assetto legislativo fondato su distinzioni etniche e confessionali e una prassi militare che contraddice apertamente i principi fondamentali del diritto internazionale umanitario. 

Sostenere, però, che ogni critica al sionismo coincida con l’antisemitismo equivale, dunque, a negare lo statuto politico del sionismo stesso, elevandolo a dogma religioso o identitario indisponibile alla ragione critica. 

In questa strategia si manifesta un’inquietante tendenza alla sacralizzazione ideologica del potere, dove il dissenso viene patologizzato e l’argomentazione razionale delegittimata. 

Chi si oppone al sionismo, anche sulla base di principi umanistici e giusnaturalistici, viene automaticamente escluso dal campo della legittimità discorsiva, come se l’ordine politico israeliano fosse una realtà teologica anziché una costruzione storica contingente e discutibile. 

È proprio questa confusione, voluta, coltivata e istituzionalizzata, che impedisce un vero dialogo, fondato sulla distinzione tra il rispetto per la dignità del popolo ebraico e la valutazione morale e giuridica delle sue scelte politiche. 

Che tale sovrapposizione sia funzionale a un disegno di immunizzazione ideologica è confermato dalla tendenza a etichettare come antisemita qualunque denuncia delle violazioni dei diritti umani da parte dello Stato d’Israele, qualunque interrogazione sul concetto stesso di “Stato ebraico”, qualunque richiamo alla sorte del popolo palestinese o al diritto al ritorno dei profughi. 

La propaganda gioca qui un ruolo decisivo: facendo leva sulla memoria dell’Olocausto, tragedia che non può e non deve essere relativizzata, essa costruisce un nesso emotivo e identitario tra la sopravvivenza del popolo ebraico e la difesa incondizionata dello Stato d’Israele. Tuttavia, proprio questo legame, se lasciato indiscusso, finisce per trasformare la politica in religione, la ragione in dogma e la giustizia in strumento di potere. 

L’ordine delle genti, che si fonda sul riconoscimento della dignità di ogni popolo e sul principio dell’autodeterminazione, impone una vigilanza critica sulle narrazioni che assolutizzano l’identità e sacralizzano lo Stato. 

L’antisionismo, quando ispirato da un’etica della giustizia e non da un odio irrazionale, è parte di questo compito. 

L’antisemitismo, invece, ne è la negazione radicale. 

Confondere i due significa rendere impossibile la distinzione tra giustizia e sopraffazione, tra critica e odio, tra la fedeltà alla verità e l’obbedienza al potere. 

Solo una filosofia politica ancorata al diritto naturale classico, capace di discernere tra l’essenza della persona e le sue manifestazioni storiche, può restituire al pensiero la libertà di dire ciò che è, senza paura di essere travolti da accuse ingiuste e infondate.

Prof. Daniele Trabucco – Costituzionalista

In collaborazione con: www.gazzettadellemilia.it

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