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Romania: il trionfo della post-democrazia costituzionale

Il turno di ballottaggio delle elezioni presidenziali rumene del 18 maggio 2025, conclusosi con la vittoria del candidato filoeuropeista Nicușor Dan, apre a una riflessione critica sul rapporto tra assetto costituzionale, volontà popolare e indirizzi politico-istituzionali imposti, di fatto, da una sovrastruttura transnazionale che incide profondamente sull’autonomia decisionale degli ordinamenti statali. 

Il quadro normativo rumeno prevede l’elezione diretta del Presidente della Repubblica mediante un sistema a doppio turno, conformemente all’art. 81 della Costituzione del 1991, secondo il quale risulta eletto il candidato che ottiene la maggioranza assoluta dei voti validamente espressi, o, in caso contrario, si procede a un secondo turno tra i due più votati. In questo contesto, la vittoria di Nicușor Dan, che ha raccolto il 53,6% dei consensi contro il 46,4% di George Simion, leader dell’AUR (Alleanza per l’Unione dei Romeni), impone un’analisi costituzionale rigorosa sulla tenuta democratica dell’intero processo elettorale e sul ruolo dei poteri di garanzia. 

Sebbene formalmente conforme ai parametri costituzionali, il procedimento elettorale ha rivelato tensioni strutturali nel rapporto tra legalità formale e legittimità sostanziale. 

Dan, espressione di un blocco tecnocratico e progressista fortemente sostenuto da ambienti europeisti e transnazionali, ha beneficiato non soltanto dell’appoggio politico delle élite urbane, ma anche, e soprattutto, di una serie di interferenze sistemiche che hanno ostacolato, in modo giuridicamente discutibile, la piena agibilità politica dell’area sovranista. 

L’annullamento discutibile delle elezioni presidenziali del 2024 da parte della Corte costituzionale, motivato da presunte ingerenze esterne, ha determinato un grave vulnus alla continuità del principio democratico, sacrificando l’effettiva rappresentatività sull’altare di una interpretazione difensiva della sovranità costituzionale, nella quale l’ordine pubblico europeo ha prevalso sulla sovranità popolare romena. 

La mancata affermazione di George Simion, candidato che aveva riportato oltre il 40% al primo turno, deve essere interpretata come il frutto di una convergenza giuridico-politica mirata a escludere sistematicamente ogni progetto alternativo alla narrativa europeista, in nome di una presunta “resilienza democratica” che, tuttavia, si è trasformata in un meccanismo selettivo delle opzioni ideologiche ammissibili nel dibattito pubblico. In tal senso, il principio di pluralismo politico, garantito dall’art. 8 della Costituzione vigente, è stato oggetto di un’interpretazione riduttiva, funzionale a marginalizzare ogni piattaforma che ponga in discussione l’integrazione sovranazionale e le sue conseguenze sui diritti sociali, sulla famiglia, sulla sovranità economica e sulla libertà educativa. 

L’architettura costituzionale rumena, modellata nel post-comunismo su criteri di compatibilità con il diritto dell’Unione Europea, si è rivelata in questa fase non neutrale, bensì orientata in senso finalistico verso la preservazione di un ordine politico fondato sul primato dell’apparato tecnocratico su ogni reale dialettica democratica. L’interpretazione dei giudici costituzionali, l’azione della Commissione Elettorale Centrale e le narrative monopolizzate dai media generalisti hanno costituito un sistema interdipendente che ha reso il processo apparentemente democratico, ma sostanzialmente condizionato. La partecipazione popolare è stata incanalata entro una cornice di legalità formale che ha posto limiti stringenti all’effettiva sovranità del corpo elettorale, in contrasto con il principio di autodeterminazione del popolo, inscritto implicitamente nell’art. 1 della Costituzione e affermato dal diritto internazionale generale.

L’elezione di Dan si configura, pertanto, come il consolidamento di una “post-democrazia costituzionale”, nella quale le forme del diritto pubblico vengono preservate, ma il contenuto decisionale è già predefinito da vincoli esterni. 

L’inefficacia del voto popolare sovranista non è riconducibile a una sconfitta ideologica, bensì a una selezione normativa e istituzionale che, attraverso strumenti formalmente giuridici, ha sterilizzato il dissenso legittimo e la proposta di una diversa architettura statuale. In questo contesto, la funzione del Presidente della Repubblica come garante dell’unità nazionale (art. 80) risulta svuotata della sua portata simbolica e politica, poiché subordinata a un indirizzo politico precostituito. In conclusione, la mancata vittoria del candidato Simion non può essere letta unicamente alla luce del risultato numerico, ma esige una disamina critica delle condizioni giuridiche che hanno impedito l’alternanza, trasformando l’elezione in un esercizio formale del suffragio. In uno Stato costituzionale autenticamente democratico, la sovranità popolare non può essere bilanciata da autorità esterne né da organi giudiziari che si ergano a custodi di un ordine politico definito a priori. 

Il caso rumeno del 2025 rappresenta, da questo punto di vista, un monito per la teoria costituzionale: senza un’autentica apertura al dissenso e alla possibilità di scelta reale, anche l’apparato più sofisticato di norme e garanzie rischia di diventare uno strumento di legittimazione del conformismo politico.

Prof. Daniele Trabucco – Costituzionalista

In collaborazione con: www.gazzettadellemilia.it

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