In ordine alla problematica canonico-teologica concernente un Concilio ecumenico già celebrato, e in particolare il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), la questione centrale si incentra sulla possibilità, da parte dell’autorità ecclesiastica e dei soggetti a vario titolo coinvolti nella vita della Chiesa, di affrontare e risolvere, in modo conforme al diritto divino e umano della “Ecclesia Christi”, le ambiguità dottrinali e pastorali eventualmente contenute nei testi conciliari o, più frequentemente, prodotte da ermeneutiche distorsive successive alla loro promulgazione.
Dal punto di vista della natura teologica e canonica del Vaticano II, va innanzitutto osservato che esso fu validamente e legittimamente convocato dal Sommo Pontefice Giovanni XXIII (regnante dal 1958 al 1963) in forza della sua suprema potestà (plenitudo potestatis) ai sensi dell’allora vigente Codex iuris canonici del 1917 e proseguito sotto Paolo VI (1963-1978), che ne garantì la conclusione. La sua natura ecumenica, nonché la sua promulgazione con l’approvazione pontificia, ne confermano la validità giuridica e l’autorità magisteriale. Tuttavia, come precisato dallo stesso Paolo VI nel discorso di chiusura del 7 dicembre 1965 e come chiarito dal cardinale Joseph Ratzinger (poi Benedetto XVI) in più interventi teologici e dottrinali, il Vaticano II si autodefinì come Concilio “pastorale” e non “dogmatico” nel senso stretto e tecnico del termine, pur contenendo Costituzioni dogmatiche (“Lumen gentium”, “Dei Verbum”) che non furono accompagnate da formule definitive (“definitive sententiae”) vincolanti in modo infallibile (“ex cathedra”). Alla luce della distinzione elaborata dalla “Donum veritatis” (Congregazione per la Dottrina della Fede,1990) tra i diversi livelli del magistero, infallibile e non infallibile, risulta chiaro che gli insegnamenti del Vaticano II, non essendo stati proposti con atto definitivo, ricadono nell’ambito del magistero autentico non irreformabile.
Ne consegue che, sul piano canonico e teologico, è lecito e talora doveroso proporre una ricezione critica, nel senso della “receptio fidei”, dei testi conciliari, qualora essi risultino ambigui, poco chiari o suscettibili di interpretazioni contrarie al depositum fidei. Tale critica, per essere legittima, deve essere esercitata nell’ambito di una fedeltà sostanziale alla Tradizione apostolica e al magistero precedente, in conformità al can. 212, paragrafo 3, del Codice di diritto canonico del 1983, che riconosce ai fedeli “il diritto, anzi talvolta anche il dovere, secondo la scienza, la competenza e il prestigio di cui godono, di manifestare ai sacri Pastori il proprio pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa”.
La Chiesa dispone, in forza del suo ordinamento giuridico e della sua struttura gerarchica, di strumenti idonei a intervenire nel caso di problematiche dottrinali emergenti da un concilio. Primo fra tutti, l’autorità della Sede Apostolica, quale principio di unità e garante della fede, può emanare interpretazioni autentiche dei testi conciliari (cfr. canone 16 del Codex del 1983), chiarendone la portata normativa o correggendo prassi erronee ad essi collegate. In secondo luogo, il Papa, in forza della sua giurisdizione suprema, piena e immediata su tutta la Chiesa (can. 331 del Codex), ha la potestà di integrare, rettificare o riformulare, con successivi atti magisteriali, insegnamenti non infallibili precedenti, inclusi quelli conciliari. Tale potere non costituisce una contraddizione del magistero stesso, ma un esercizio ordinario della sua funzione di “principium unitatis veritatisque”.
Va, altresì, ricordato che anche il Collegio episcopale, in comunione con il Papa, può legittimamente intervenire nel discernimento dei frutti e delle ambiguità di un concilio, eventualmente promuovendo un nuovo sinodo o concilio che riprenda, rettifichi o chiarisca i testi precedenti. Il principio di “traditio fidei” esige, infatti, che ogni nuovo insegnamento sia in continuità sostanziale con quello precedente, secondo l’ermeneutica della riforma nella continuità dell’unico soggetto Chiesa, come sostenuto da Papa Benedetto XVI (2005-2013) nel celebre discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005 (sebbene questa ermeneutica della continuità non sia esente da problemi). Nel caso specifico del Concilio Vaticano II, diverse Dichiarazioni e Costituzioni hanno sollevato perplessità sul piano dell’ermeneutica e della formulazione dottrinale, in particolare “Dignitatis humanae”, “Nostra aetate”, “Unitatis redintegratio” e alcuni passaggi di “Gaudium et spes”.
Queste perplessità, pur non mettendo in discussione la validità giuridica del Concilio, interrogano legittimamente i teologi, i vescovi e il magistero papale circa la loro compatibilità con la Tradizione precedente. Non si tratta di contestare il Concilio come evento ecclesiale, bensí di valutare, alla luce del principio della “regula fidei”, se taluni testi necessitino di un’ermeneutica correttiva o di una riformulazione esplicativa. È, dunque, teologicamente e canonicamente fondato affermare che, di fronte a un Concilio validamente celebrato ma non infallibile nei contenuti proposti, l’autorità ecclesiastica può e deve intervenire, anche con atti magisteriali successivi, per rettificare o integrare ciò che risulti ambiguo o dannoso alla retta fede.
Tale operazione non contraddice la costituzione gerarchico-sacramentale della Chiesa, dal momento che ne attua il principio fondamentale di indefettibilità nel tempo, garantito non dalla perfezione formale di ogni documento ecclesiale, ma dalla presenza indefettibile dello Spirito Santo nella Tradizione vivente della Chiesa.
Prof. Daniale Trabucco – Costituzionalista
In collaborazione con: www.gazzettadellemilia.it
Foto copertina: credits: Lothar Wolleh (1930–1979) momenti durante il Concilio vaticano II