Secondo l’impianto teoreticamente classico, magistralmente portato alle più alte vette da Tommaso D’Aquino (1225-1274), la naturale politicità della persona umana comporta anche la naturale giuridicità intesa sia in senso oggettivo (cioè quanto al contenuto: il giusto in sé), sia in senso soggettivo (ossia la capacità di cogliere e di intendere il giusto).
Nella “Summa Theologiae” l’Aquinate precisa come il diritto corrisponda allo “ius quia iustum”, o meglio sia “obiectum iustitiae” (cfr. S.Th., II-II, q. 57, a. 1).
Ora, poiché la giustizia consiste nel rendere a ciascuno il suo, il giusto è ciò che è dovuto (es. la somma di denaro che il debitore è tenuto a versare al creditore nell’adempimento della prestazione oggetto dell’obbligazione.
A titolo esemplificativo pensiamo al pagamento del prezzo a seguito della vendita di un bene).
Il giusto, dunque, come si può vedere, esige un’uguaglianza tra i termini della relazione di giustizia, o meglio tra il “suum” ed il “debitum”.
L’adeguatezza del dovuto “ex ipsa natura rei” è principio di diritto naturale, mentre l’adeguatezza “ex condicto sive ex communi placito” è propria del diritto positivo (ad esempio, la legge scritta può prevedere, quanto al dovuto, quando il creditore dovrà essere soddisfatto se a seguito di un contratto o di una statuizione dell’autorità).
Detto in termini più semplici: il diritto naturale indica il giusto naturale, il dovuto per sé stesso.
Esso comanda di rendere a ciascuno il suo, indipendentemente dalle condizioni del debitore.
Sarà, del caso, la legge positiva che stabilirà il come, il quando e con quali modalità il debitore potrà soddisfare il credito (ipotizzando, per esempio, un pagamento rateale del debito).
In questa prospettiva, pertanto, diritto (lo “ius”) e la legge non sono sinonimi, non indicano la medesima cosa: quest’ultima partecipa del diritto (naturale) senza, però, esaurirlo.
Il diritto, dunque, è condizione e sostanza della legge la quale è propriamente tale se manifesta ed attualizza il diritto naturale: “lex scripta, sicut non dat robur iuri naturali, ita nec potest eius robur minuere vel auferre, quia nec voluntas hominis potest immutare naturam” (cf. S. Th., II-II, q. 60, a. 5, ad. 1).
Ovviamente la naturalità del diritto, dello “ius”, corrisponde alla natura razionalità umana.
Ogni soggetto umano, infatti, è naturalmente capace di discernere il giusto dall’ingiusto (uccidere un uomo è un atto evidentemente ingiusto, malvagio, e nessuno di noi lo perseguirebbe a meno che non vi sia la volontà di commettere un omicidio).
In conclusione, la legge scritta, positiva, può dirsi diritto a condizione che risulti “determinatio iuris naturalis” (cfr. Quodlib., II, q. 4, a. 3), in tutti gli altri casi è solo “corruptio legis”.
Prof. Daniele Trabucco – Costituzionalista
In collaborazione con: www.gazzettadellemilia.it