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Gennaro Spinelli, Ambasciatore per la Cultura Romaní nel mondo: “Nè ladri né romantici viandanti, la storia rom è di più”

Gennaro Spinelli è un musicista di fama internazionale, compositore e insegnante.

Figlio del celebre autore e professore Santino Spinelli, Gennaro è nato in Abruzzo, ma le sue origini sono di etnia rom e le rivendica con fierezza, infatti è anche Ambasciatore per L’arte e la Cultura Romaní nel mondo.

È autore del densissimo, chiarissimo e coloratissimo saggio “Rom e Sinti. Dieci cose che dovresti sapere”.

Gennaro è quindi -in un solo corpo tutt’uno col suo violino- artista e attivista, dedica la sua vita all’educazione e alla bellezza perché crede possano veicolare messaggi affini e muovere nella stessa direzione, che è quella di far conoscere la minoranza romaní.

Perché ciò che non si conosce alimenta pregiudizi e stereotipi, scatenando le premesse che nella storia hanno causato barbare persecuzioni.

Siamo orgogliosi di averlo intervistato.

Gennaro Spinelli, violinista e valorizzatore di culture poco conosciute come quella romaní, il suo primo amore è il violino…

Bello eh? Potrei averlo rubato però?! (ride NdR)

Sicuramente più originale del più classico rame!…

Credo che l’ironia, l’arte e la conoscenza possano davvero salvarci, per questo si può scherzare (quasi) su tutto.

Sono stato cresciuto da mio padre con quei valori che guardano a chi è ultimo e non a chi arriva per primo, alle pari opportunità concrete e non solo di facciata.

Se tutti noi possiamo lavorare, avere una casa, degli svaghi e soddisfazioni è perché abbiamo avuto delle opportunità di partenza, la possibilità iniziale di mettere a frutto il nostro talento.

E chi subisce lo stigma dello “zingaro” non ha le stesse opportunità.

È una parola avvelenata, che toglie tanto: toglie fiducia, toglie un prestito in banca o l’affitto.

Giustizia è nascere con questa possibilità di base che poi ciascuno saprà o meno portare a realizzazione.

A proposito di stereotipi, l’etnia rom è la più discriminata d’Europa, in Italia l’85% delle persone non vorrebbe un vicino di casa rom*. Eppure incontriamo tutti i giorni persone di origine rom che sono dentisti o vigili del fuoco, operai, spazzini, docenti universitari. Innanzitutto i rom non sono nomadi ma hanno una storia di fuga, persecuzioni che hanno reso complesso e drammatico per loro lo stabilirsi in una dimora permanente.

È difficile spiegare millenni di storia in un’intervista ma le vicende di questa etnia la hanno vista nascere in India, poi deportata dall’India alla Persia (attuale Iran) per poi spargersi nel mondo e sparpagliarsi a causa di continui accanimenti generati da false idee e da ideologie nefaste come quelle del nazismo. La prima cosa da dire è che non c’è alcuna natura nomade nell’etnia rom. Mio nonno ad esempio era un allevatore di bestiame, il suo mestiere lo portava a spostarsi ma non era un viandante per indole razziale.

Si tratta di un circolo vizioso. Più si viene cacciati da un luogo e più si cercherà un’attività di sostentamento peregrinante, la quale a sua volta porterà la società a vederti come un nomade e così a discriminarti, e perciò a diventare ancora meno inclini alla vita stanziale.

Un po’ tutti oscilliamo tra lo stereotipo dello zingaro che ruba e del gitano romantico. Entrambe queste visioni non rispondono alla realtà e sono frutto di scarsa conoscenza e superficialità.

È necessario demolire al più presto queste concezioni irrazionali e normalizzare la figura della persona di etnia rom.

Contano i dati di fatto e la conoscenza reale della vita quotidiana. Il rom non è un fannullone che suona davanti ai fiumi né il criminale che scippa in metropolitana.

Ci sono sfaccendati e ladri come in ogni popolo, ma non è un dato etnico.

Ci sono milioni di persone di etnia rom nel mondo e fanno le cose più disparate. Nessuna delle due immagini è utile all’integrazione e alla convivenza.

La comunità di questo immenso gruppo di persone è spesso clandestina e lavorano tra noi in incognito per evitare lo svantaggio sociale, quando avrebbe invece qualcosa in più da dare.

Io ad esempio sono un cittadino italiano di origine rom, rispetto le leggi italiane, parlo italiano e in più posso dirmi arricchito di un bagaglio di valori morali, usanze e costumi della mia etnia di appartenenza.

Festeggio il Natale, la Pasqua e il Capodanno ma in aggiunta celebro la festa del raccolto oppure vengo giudicato da un tribunale, esclusivamente morale, che si chiama Kris.

Dall’India abbiamo portato le spezie, dalla Persia la visione dualistica dell’esistenza, dalla Grecia diversi vocaboli e concetti.

Facciamo sforzi immani per far comprendere che la radice etnica è una meravigliosa aggiunta che non toglie nulla a nessuno e per di più che tutti abbiamo.

La globalizzazione appiattisce, impoverisce e distrugge, la tradizione di ciascuno impreziosisce e arricchisce.

Sono d’accordo e credo che tra le cose più belle della vita ci sia la contaminazione: musicale, linguistica, culinaria, religiosa e spirituale. Prendiamo il sensualissimo flamenco: nasce dalla fusione tra sonorità rom e ritmi spagnoli.

Ci tengo a dire che nel mio libro c’è anche un capitolo dedicato ai pregiudizi che i rom nutrono verso i non- rom. L’inclusione si fa insieme, come l’amore. Altrimenti è altro, come dice mio padre Santino.

La lingua romaní non è ancora riconosciuta ufficialmente. Perché?

Lo scriva chiaro e tondo. Perché quando sono state riconosciute le lingue minoritarie c’erano Silvio Berlusconi e Roberto Maroni al Governo.

Io non credo neppure che avessero davvero qualcosa contro l’etnia rom (anche perché non credo la conoscano) ma per i voti si fa questo e di peggio.

Non che la sinistra abbia fatto di meglio eh.

Nessun partito metterebbe mai una persona di etnia rom come capolista, nemmeno quelli che si riempiono la bocca della parola “diritto”.

Ma come si può davvero pensare che sia il sangue o il colore della pelle a costituire la complessità di un individuo umano e non le condizioni economiche e sociali della sua vita?

Le associazioni si battono anche per il pieno riconoscimento del Porrajmos “divoramento”, ossia il genocidio delle famiglie rom nei campi di sterminio nazisti. Ce ne erano diversi anche in Italia.

Non è una gara al risarcimento morale (e quindi politico) ma la possibilità di ufficializzare la Memoria dello sterminio e della sofferenza atroce di milioni di persone. Non è giusto che la storia della memoria la scriva solo chi ha più forza e risorse per farla ricordare.

Noi preferiamo il termine Samudaripen, perché Porrajmos in alcuni dialetti (anche se la lingua è una sola) ha un significato sessuale, e quindi alcune comunità ritengono offensivo associare il genocidio e la sessualità.

Porrajmos è sicuramente il termine più usato in Italia.

È vero, a Norimberga nel 1945 nessuno della comunità rom è stato invitato a presenziare e testimoniare.

Io credo però che i pregiudizi sin vincano solo insieme.

Per questo venerdì 24 marzo pianteremo un albero a Roma in Piazza Vittorio Emanuele II (non a caso il quartiere dell’intercultura della Capitale) a significare la memoria che è viva proprio come un sempreverde.

L’albero è donato dalla comunità ebraica in collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma. 

Veniamo alla questione dei campi rom. Essi ricordano i lager, scrive nel suo saggio.

Lei scrive di integrazione ma preferisce il termine convivenza la quale permette la sinergia senza fusione, senza perdere identità culturale. Lei afferma che questo processo deve venire da entrambe le parti. Difficoltà ad abbandonare il campo da una parte e dall’altra parte business e profitto sul degrado -come è emerso dall’inchiesta “Mafia Capitale”- e sulle negate opportunità devono essere entrambe superate.

È proprio così, nonostante il degrado e la segregazione il campo è il luogo che hai chiamato casa ed è difficile emanciparsi, ma molte persone lo hanno fatto.

Ogni giorno che passa la situazione peggiora, perché quotidianamente un bambino perde l’opportunità di scolarizzazione.

La scolarizzazione di livello obbligatorio per la legge italiana, dei minori provenienti dai campi, non raggiunge l’1%. Vengono spesi milioni di euro per solo alcune migliaia di bambini, e dove vanno a finire quei soldi?

In economia aziendale questo si chiama fallimento, per me si chiama sfruttamento, profitto sulla pelle di innocenti. Per porre fine a questo fallimento civile ed etico occorre attuare la triade scolarizzazione, abitazione e occupazione. Le chiavi per un accesso alla giustizia sociale.

Alcuni italiani non-rom accusano gli italiani rom di ricevere la casa o chissà quale altro servizio o perfino privilegio e intanto di andare a rubare, ma chi ruba non è nei campi, è sopra di noi.

Chi vive nei campi soffre di malnutrizione e non ha riscaldamento e non può neppure andare a lavorare per guadagnarselo! Chi assumerebbe una persona che non ha potuto ricevere istruzione? O che magari non ha la possibilità di lavarsi? Per non parlare della Sanità e della possibilità di inserimento nelle Asl del territorio.

Ecco la guerra tra poveri perfettamente confezionata. E intanto nei campi si muore per mancato accesso alle cure e ad una sana alimentazione,

La strada è lunga e il popolo rom ne ha già fatta tanta, ma tutti possiamo raccontare di questo straordinario viaggio.

Giulia Bertotto

*Dati del Pew Research Center del 2014

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