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Il nichilismo giuridico del post-costituzionalismo: decostruzione della verità e dissoluzione del diritto

Con il termine post-costituzionalismo si designa una configurazione teorica del diritto in cui la Costituzione cessa di essere principio ordinatore fondato su un ethos condiviso o su una razionalità normativa oggettiva, per divenire struttura fluida, aperta, adattabile, soggetta a interpretazioni molteplici e mutevoli, priva di rigidità assiologica. 

Il diritto non è più ciò che è conforme a un ordine naturale delle cose, il c.d. “ordo essendi”, ma diviene ciò che risulta dal processo decisionale collettivo, dalle dinamiche della società aperta, dai bilanciamenti tra diritti soggettivi considerati come espressione della volontà individuale. 

È, in breve, la riduzione dell’ “ordo iuris” a “ordo voluntatis”. 

La norma costituzionale non vincola più in forza della sua verità, ma in forza della sua effettività e della sua capacità performativa. Tale configurazione si distingue sia dal costituzionalismo moderno, che pur nella sua matrice volontarista contrattualista manteneva una certa esigenza di universalità e razionalità (si pensi alla “raison générale” di Rousseau o all’universalismo giuridico kantiano), sia dal neocostituzionalismo, che ancora tentava di fondare l’interpretazione costituzionale su principi giusfilosofici di carattere almeno formalmente razionale (quali la dignità della persona, l’eguaglianza, la proporzionalità), pur in un quadro segnato dalla crisi delle certezze ontologiche. 

Il post-costituzionalismo, al contrario, nasce e si afferma come progetto teorico post-fondazionalista: la pretesa stessa di fondare il diritto su una verità dell’essere umano e della convivenza civile viene rigettata come autoritaria, premoderna, dogmatica. Nel diritto post-costituzionale, come ben ha notato il giurista e filosofo del diritto francese, Michel Troper (1938), il potere costituente non si arresta più nel momento della promulgazione della costituzione: esso diventa immanente, permanente, capace di reinterpretare e modificare costantemente la struttura costituzionale secondo la volontà mutevole del corpo sociale. 

È la transizione dal “nomos” come limite alla “kratos” come dominio, cioè dalla legge fondata sull’essere alla decisione fondata sul volere. Qui si compie, per via giuridica, quanto Carl Schmitt (1888-1985) aveva già intravisto nella sua dottrina del sovrano come colui che decide sullo stato di eccezione: il diritto diventa esso stesso funzione della decisione, senza criteri sostanziali che la precedano o la orientino. 

Tuttavia, ciò che appare come apertura al pluralismo e alla dinamicità sociale si rivela, sul piano della filosofia del diritto, come la piena realizzazione del nichilismo. Laddove non vi è più verità, ma solo validità; laddove non vi è più giustizia come conformità a un ordine dell’essere, ma solo giuridicità come esito di procedure; laddove non vi è più il “ius come id quod iustum est”, ma solo “lex” come volontà imposta, lì il diritto si dissolve nella pura potenza. 

Il post del post-costituzionalismo non indica il superamento maturo del costituzionalismo moderno, quanto il suo naufragio per mancanza di fondamento. Questa deriva è chiaramente incompatibile con la concezione del diritto naturale classico, in cui il diritto non nasce dalla volontà, bensì dall’intelligenza dell’ordine. 

San Tommaso d’Aquino (1225-1274), nella “Summa Theologiae” (I-II, q. 91-97), concepisce la legge come ordinamento razionale al bene comune, partecipazione della legge eterna divina nella creatura razionale. La legge naturale, fondata sull’essenza razionale e finalistica dell’uomo, costituisce il criterio oggettivo e universale per valutare la legittimità della legge positiva. Il diritto non è creazione arbitraria dell’uomo, bensì il riconoscimento di una verità precedente, di un ordine che l’uomo non istituisce, ma scopre e rispetta. In questa prospettiva, il concetto stesso di “potestas” legislativa è subordinato alla “veritas legis”: la legge vale in quanto è giusta, non è giusta in quanto vale. 

È proprio l’abbandono di questa metafisica del diritto che genera il nichilismo giuridico. La modernità giuridica, espellendo la natura dall’ambito del giuridico, ha reso possibile la sovrapposizione della “voluntas” all’”intellectus” e, nel post-costituzionalismo, questa sostituzione raggiunge il suo compimento teoretico. 

Del resto, come afferma Leo Strauss (1899-1973), il rifiuto della legge naturale non conduce alla neutralità assiologica, ma alla sottomissione del diritto al relativismo culturale e alla dittatura del momento presente. Il post-costituzionalismo, dunque, è il nichilismo giuridico sistematico. Esso, detto diversamente, dissolve ogni criterio oggettivo, ogni gerarchia normativa fondata su principi permanenti, ogni riferimento alla natura umana come misura del giusto. Lungi dall’essere un’evoluzione emancipativa, esso è la forma ultima della crisi dell’Occidente giuridico, il prodotto finale di una modernità che ha rifiutato le sue radici classiche e cristiane. In questa luce, il diritto naturale classico non appare come una concezione superata, ma come l’unico argine razionale al disfacimento della normatività. 

Solo tornando a pensare il diritto a partire dall’essere, e non dalla volontà, sarà possibile ricostruire una giuridicità autentica, che non sia pura funzione del potere, ma espressione dell’ordine razionale e finalistico inscritto nella realtà. La restaurazione della giustizia passa, invece, per la restaurazione della verità del diritto.

Prof. Daniele Trabucco – Costituzionalista

In collaborazione con: www.gazzettadellemilia.it

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