Un semplice malessere, una febbre passeggera, un’aritmia, una sensazione inspiegabile che affiora nel cuore o nei nervi. Così ha cominciato a parlare, il corpo. Ma nessuno sapeva ascoltarlo. Ora, per alcuni, è diventato uno scaffale della farmacia: ogni giorno un integratore, un farmaco, un tentativo di rincorrere ciò che si è smarrito. Tra gli effetti più silenziosi, ma più devastanti, c’è il disfacimento del piacere. La perdita, non della funzione, ma del desiderio. Dell’impulso. Della presenza interiore che anima la carne.
C’è una verità indicibile che attraversa alcuni di coloro che sono danneggiati dalla vaccinazione anti-Covid: il corpo, quel complice fedele che un tempo era teatro di godimento, risonanza di emozioni, vibrazione d’amore, è diventato un oggetto estraneo. Qualcosa da gestire, da medicare, da contenere. Non più un luogo di incontro, ma un confine invalicabile. Come se una cesura si fosse creata tra l’io e la pelle, tra l’intimità e l’istinto. Il tocco, un tempo portatore di senso, ora è percepito come intrusione o fatica. Davanti alla voglia di dare e ricevere piacere, si impone invece un freddo dovere: essere neutri. Essere presenti, ma assenti. Come se amare diventasse un atto di cortesia, una forma di educazione sentimentale che esclude il corpo.
Il desiderio, che per sua natura è spontaneità, esondazione, vita che preme per uscire, viene invece trattenuto, disinnescato. Come se fosse troppo dispendioso, un lusso che il corpo malato non può più permettersi. Un’attività biologicamente rischiosa, psicologicamente fuori portata. E questo genera una sofferenza che è difficile nominare, perché non ha una ferita visibile, né una diagnosi certa. È una menomazione dell’anima, vissuta nel silenzio, con la vergogna di sentirsi difettosi. Si tratta di una mutilazione sottile, che non toglie la vita, ma toglie il suo sapore più misterioso e nobile: la possibilità di condividere il piacere, di fondersi, di generare.
Ed è inquietante che proprio ciò che dovrebbe essere il bello della vita, la gioia del contatto, il piacere che rinnova, l’intimità che consola, diventi improvvisamente il luogo del dubbio, della rinuncia, del dolore. Come si può non sentirsi profondamente umani in quel vuoto? Come non sentire che si sta perdendo qualcosa di essenziale, di sacro? La vita, quando si allontana dal piacere, perde parte della sua musica. E chi ne è privato, suo malgrado, resta sospeso in un’esistenza a metà: lucido, senziente, ma incompleto. Vivo, ma come dietro un vetro.
E allora parte l’incazzo. Un’urgenza emotiva, un moto interiore che non trova pace né giustificazione. Perché non è solo rabbia contro un evento, contro una scelta, contro chi non ha ascoltato. È una rabbia che nasce dal sentirsi derubati di qualcosa che non si può restituire. Di un diritto umano, carnale, ancestrale: quello di amare con tutto il corpo. Di essere presenti in un abbraccio, in uno sguardo che diventa gesto, in un piacere che diventa condivisione.
Ma quel che è peggio è che, subito dopo, subentra qualcosa di ancora più corrosivo: il senso di colpa. Non per ciò che si è fatto, ma per ciò che non si riesce più a dare. Nei confronti dei propri compagni, delle proprie compagne, di chi è rimasto accanto. Che comprende, che ama, che aspetta. Eppure, assiste impotente a questa mutazione sottile, invisibile, ma costante. Come se guardasse una persona amata ritirarsi piano piano in un altrove fatto di stanchezza, incertezza, fragilità.
Il corpo, privato del piacere, diventa un testimone silenzioso di un amore che non riesce più a farsi carne. E allora l’intimità si trasforma in una gentilezza piena di nostalgia. In uno stare insieme che cerca di non ferire, che protegge, ma non accende più. Il desiderio non muore del tutto, ma si rintana, si contrae, si vergogna quasi di esistere.
In questo vuoto, anche il futuro si scolora. Non solo quello legato alla possibilità di generare figli, ma a tutto ciò che nasce dal desiderio: i progetti comuni, le visioni condivise, la voglia di costruire. È come se la sterilità diventasse una condizione esistenziale. Non solo del corpo, ma dell’anima. Perché dove il piacere muore, la vita smette di espandersi. Resta, certo. Resiste. Ma non fiorisce più.
E convivere con tutto questo significa imparare a camminare su un confine sottile tra l’accettazione e il lutto. Significa dover trovare nuove forme di presenza, di amore, di tenerezza, ma anche il coraggio di dire che no, non è tutto “normale”. Che non si può chiedere a un essere umano di rinunciare al piacere senza lasciarlo profondamente solo. E allora serve uno spazio. Un riconoscimento. Una voce che dica: sì, questo dolore esiste. È reale. E merita rispetto.
Si tratta, oggi, di avere il coraggio di guardare in faccia il dolore di chi è rimasto indietro. Di chi non è tornato più com’era, di chi ha perso qualcosa di invisibile ma fondamentale: la piena abitabilità del proprio corpo, la libertà del proprio desiderio, la capacità di sentirsi vivo nel contatto con l’altro.
Negare questo dolore è disumano. Etichettarlo, ridicolizzarlo, silenziarlo, com’è purtroppo si continua a vedere, è un altro trauma che si somma al primo. È un modo sottile e feroce di dire a chi soffre: non sei credibile, quindi non sei reale. Ma è reale eccome, questa sofferenza. È reale nei giorni spezzati, nelle relazioni che si allentano, nella paura di essere diventati altro, per sempre.
La consapevolezza collettiva non nasce dalla perfezione dei sistemi, né dall’infallibilità delle scelte. Nasce dal riconoscimento. Dalla capacità di dire: ti vedo, ti credo, anche se non so come aiutarti. Solo così si può cominciare a ricucire, con dignità, le fratture lasciate da questi anni. Solo così possiamo ridare spazio alla voce di chi ha pagato un prezzo che non si può misurare in numeri, ma solo in vite silenziosamente cambiate.
Ed è lì, in quello spazio, che forse può rinascere una nuova forma di cura: non tecnica, non medica, ma profondamente umana. Un atto collettivo di ascolto, in cui il dolore non venga più messo da parte, ma accolto come parte integrante della verità. Una verità scomoda, sì. Ma necessaria. Perché senza di essa, non c’è futuro che possa davvero dirsi integro.
Perché il corpo, quando smette di desiderare, non è solo stanco. È solo.
Ingrid Busonera