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La Biblioteca del lavoro: Franco Ferrarotti

Fabbrica e società. Ecce homo. 

Penna affilata e libera. Un ragionato bilancio storico e biografico. “Pane e lavoro. Memorie dell’outsider”: è il titolo della riflessione a metà del cammino dell’esistenza. L’editore è Guerini e Associati e la prima edizione è datata 2004. L’autore è Franco Ferrarotti: classe 1926; si è spento nel 2024, mese di novembre, solo qualche settimana fa. È uno dei padri della sociologia italiana. Tema di studio e di riflessione dello studioso: il lavoro e l’industria. E i loro effetti sull’organizzazione del territorio e nelle dinamiche sociali. Questa è una autobiografia, quasi un curriculum vitae scritto a ricerca del lavoro completata. 

Lavoro di fabbrica

Il tornio incute timore reverenziale. Non è per tutti. Chi lo conosce lo rispetta. A chi sono note le modalità di esecuzione del lavoro tremano i polsi.  Dal terzo piano dell’Olivetti, un giovane Franco Ferrarotti scende al piano basso del lavoro. Al terzo piano, il piccolo ufficio accanto a quello del Presidente riporta la definizione del ruolo: “addetto ai problemi sociali”. È lui, il giovane sociologo, a chiedere di scendere negli inferi dell’aristocrazia del lavoro: fra gli operai specializzati del tornio. L’iniziazione al lavoro comincia con il “tu”. Il capo-officina gli affida il manico di una scopa per cominciare. Non ci si può permettere lo spreco di metallo. Allora, riduci in trucioli il manico di una scopa. Ma non rovinare una produzione e non sprecare materia prima. Allora come oggi. L’intellettuale prestato alla fabbrica è tollerato. È della squadra solo chi sa fare. È Franco Ferrarotti a dirlo, a scriverlo: chi non sa fare si mimetizza nella ridondanza del rumore della lingua contro il palato. “Rovinato un certo numero di manici di scopa e di tubi di metallo, mi sentivo pronto per assumere l’arrogante ruolo dell’insegnante, ossia di colui che non riuscendo a fare cose egregie sul piano della prassi si butta su quello della teoria.”

Sicurezza del corpo, lucidità della mente

Il lavoro è un banco di prova dal quale difficilmente si sfugge. Chi non fa oppure non sa fare non può nascondersi in un lago di parole.  Il primo nemico del lavoro fisico è la confidenza. Espressione dell’abitudine e della quotidianità dell’azione. Anche se ripetitiva l’azione di lavoro cambia ed è condizionata dallo stato fisico. 

Un operaio è prima di tutto la sua attenzione. Poi, il suo corpo. Non deve scivolare sulla strada lastricata della presunzione di sapere. Deve preservare la mente vigile e il corpo efficiente. 

Lavorare alla fresa senza occhiali significa compromettere la vista. Può non succedere. Ma se accade, nella vita dell’operaio un solco profondo divide il prima da un inquietante dopo. La fresa minaccia gli occhi. Gli occhi piangono sangue. Non solo lacrime. Il nemico di un corpo al lavoro è la stanchezza. La stanchezza dipende dall’applicazione dell’attenzione e dalla tenuta del corpo. La stanchezza, in un tempo di lavoro organizzato in un orario spezzato, cioè mattina e pomeriggio, si palesa a metà pomeriggio. Quando la fine del tempo del lavoro la si percepisce vicina ma è ancora lontana, quando si allenta l’attenzione. Il momento della confidenza, della certezza di essere in una zona sicura, è quello più pericoloso. L’attacco polemico di “Una sociologia alternativa”, datato 1972, è dedicato agli omicidi bianchi, agli incidenti sul lavoro. Le osservazioni dei sociologi del lavoro sono rivolte molto più ai dirigenti e sono pensate per essere ieraticamente pronunciate in occasione di costosi convegni contornati le libagioni che non alla ricerca di una soluzione per superare oppure per contenere gli incidenti sul lavoro e le morti sul lavoro. A scriverlo, ancora lui: Franco Ferrarotti.

La fame nera

La fame fa eco nello stomaco vuoto. La fame si manifesta con i crampi, con il gorgogliare dell’intestino disoccupato. Nell’Ottocento gli affamati erano considerati socialmente pericolosi. Degli affamati si aveva paura. La società attuale ha risolto il problema negando la loro esistenza. L’autore dedica una brillante digressione alle soluzioni scaltre per placare la fame: modalità di quotidiana sopravvivenza che riportano la pellicola al secondo dopoguerra, quando ci si infilava alle feste di matrimonio oppure si allungava la mano in una bancarella di frutta fresca al mercato. Sono immagini che richiamano il passato prossimo di un’altra epoca storica. Declinate anche al presente. La fame ha preso altre forme rispetto al secondo dopoguerra, si è intrufolata per altri viottoli di sopravvivenza precaria. Non cita il cibo-spazzatura, il sociologo. Ma tra le righe lascia trasparire e intuisce l’ampiezza del fenomeno. Fame è una parola oscena.  Fame introduce la tragica pagina delle povertà, quella culturale compresa. Nelle società tecnologicamente evolute la povertà non è accettabile. Le società tecnologicamente evolute sono società umanamente imbarbarite. Incapaci di vedere la sofferenza altrui. È disinteressata. “La fame è una lezione di sobrietà. Riporta alle origini. Quando si nasce fra sangue e feci.” La fame è una condizione umana dalla quale non ci si riscatta. Dalla quale ci si può solo temporaneamente allontanare. Così come si allontana nell’immaginario la certezza della fine terrena.

La povertà

Storia di una dissimulazione disonesta. La povertà la si nega senza parlare. Semplicemente la si dimentica. La si tace. Non la si vede. Invece la povertà ha preso le forme delle mille luci del consumismo. Prima fra tutte quella culturale. Trasversale agli scaglioni di reddito. Franco Ferrarotti è più concreto di così. E definisce tre linee di confine. Uno: la famiglia a malapena arriva alla fine del mese ma se si cambia la macchina si sacrifica il cinema oppure la vacanza Due: situazione di indigenza, cioè quando i soldi bastano per il vitto ma non ci sono per pagare le utenze. Tre: la miseria, cioè quando l’impossibilità a pagare le bollette spinge le persone verso il marciapiede come casa, la strada come domicilio. Queste ultime forme di povertà descritte dal sociologo sono le nuove povertà. Le case di cartone ripiegate al mattino alle uscite secondarie della stazione dei treni sono il giaciglio di chi è caduto dalla scalinata sociale ed è rimasto in terra. Dalla prima edizione del libro ad oggi il fenomeno si è acuito. Sugli occhi della società una pericolosa cataratta di indifferenza è aumentata di spessore. 

Povertà e lavoro

La povertà costituisce le fossette di lancio dello sfruttamento lavorativo. Franco Ferrarotti non affronta direttamente il tema in questo libro. Menziona direttamente la relazione che si instaura tra dominanza e minoranza. Un riferimento chiaro al dominio di chi impone le regole e reclama sudditanza. 

Fame, povertà, dissipazione dell’entusiasmo intellettuale: la pesante coperta dell’oblio si è posata su di loro. Li ha nascosti alla vista quotidiana. Li nega e se ne fa beffe. Tra le righe delle “Memorie dell’outsider” scaturiscono le immagini della società di oggi. Alla ricerca sulla povertà, il sociologo ha dedicato il tempo della ricerca durante la docenza universitaria. Quando, sugli autobus dell’Atac, a Roma, se ne andava in giro con gruppi di studenti ad osservare dinamiche sociali sul terreno e a scattare fotografie. A generazioni di studenti ha insegnato a leggere situazioni sociali e fotografie. Ha insegnato, anzi ha professato l’importanza di osservare e di togliere le lenti oscure dell’indifferenza. 

Il tempo di lavoro

Cronologicamente breve, l’apprendistato come operaio specializzato. Psicologicamente lunghissimo. Dura per tutta la vita il lavoro di traduttore e di interprete. Non si traduce solo da una lingua all’altra. Si traducono anche le dinamiche sociali in descrizioni a prova di comprensione.  Traduce Thorstein Veblen e la sua “Teoria della classe agiata” per Einaudi. Per lo stesso editore, anche “Il rito religioso” di Theodor Reik. Poi, il lavoro come docente universitario, quando la sociologia ritorna sulla scena della ricerca scientifica. Dopo la sospensione imposta da fascismo e nazismo. Ne parla quasi alla fine del libro del mestiere praticato nel tempo lungo dell’esperienza di vita. Perché è una fortuna intellettuale lavorare studiando e studiare la società per mestiere. I primi tempi come docente senza stipendio. Poi, le aule strapiene. Le lezioni di fronte a platee infinite di studenti risvegliati nella frenesia della ricostruzione post-bellica avviata ormai da un decennio. Anni Sessanta, quelli del boom economico e demografico. Boom di movimenti. Il fervore della ricerca sociale in fase di avviamento. Un motore nuovo. Entusiasmo e rodaggio. La docenza universitaria è il capitolo professionale più lungo. La preparazione emotiva è precedente, sedimentata e metabolizzata nel corso lungo di una vita.  L’iniziazione del lavoro di fabbrica, la condizione di senza fissa dimora vissuta al ritorno a Torino dopo le cure fisiche in un’altra città, la posizione di minoranza e di sudditanza di fronte all’aristocrazia operaia della torneria. È la parte centrale dell’autobiografia di Franco Ferrarotti. La fabbrica è la palestra emotiva di una vita dedicata alla ricerca sociale.

Francesca Dallatana

In collaborazione con: www.gazzettadellemilia.it

Franco Ferrarotti, Pane e lavoro. Memorie dell’outsider, Guerini e Associati, Milano, 2008

Fuori dal Silenzio

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