Alda Merini, una delle poetesse italiane contemporanee più amate e lette dai giovani e non, ebbe una vita tormentata, perennemente in bilico tra il genio e la follia.
Fin da bambina Alda manifestò un precoce talento per la scrittura. Era una bambina straordinariamente sensibile, capace di entusiasmarsi e di dedicarsi anima e corpo a ciò che amava. Quando annunciò di voler prendere i voti, la madre pensò di dissuaderla a suon di percosse.
Dopo quest’episodio continuò a dedicarsi alla scrittura e a quindici anni le sue poesie vengono notate ed apprezzate dal giornalista Giacinto Spagnoletti, ma all’epoca non stava bene che una donna leggesse troppo o si dedicasse ad attività artistiche. Il padre strappò in mille pezzi la recensione del lavoro di Alda e ordinò alla figlia di togliersi dalla testa quelle sciocchezze.
Nel 1953 la Merini sposò Ettore Carniti, un matrimonio che si rivelerà infelice per la poetessa, come racconterà la figlia, la sua secondogenita, Barbara Carniti: «Mio padre conobbe mia madre nel ’53 e dopo qualche mese di fidanzamento la sposò, ma si aspettava un altro tipo di donna, non sapeva che sua moglie fosse una poetessa, e non sapeva che cos’è la poesia, così nacquero delle incomprensioni. Quando mia madre ebbe le prime manifestazioni strane, lui non riusciva a placarla e chiamò i dottori, così lei finì in manicomio e mio padre soffriva, anche perché non aveva strumenti per capire».
Infatti, proprio durante una lite domestica la Merini venne rinchiusa, contro la sua volontà, nell’Ospedale Psichiatrico Paolo Pini. Qui la Merini, la giovane donna la cui straordinaria sensibilità era stata apprezzata da Montale e da Quasimodo, la poetessa che aveva composto delle poesie tanto delicate e struggenti, subì delle vere e proprio torture fisiche e psicologiche.
I pazienti dei manicomi prima della legge Basaglia venivano incatenati ai letti per giorni e giorni, sottoposti a violenze e continue umiliazioni, costretti a subire l’elettroshock contro la loro volontà.
Alla Merini fu praticato l’elettroshock per ben quaranta sei volte, in un’occasione semplicemente perché «aveva risposto male a un’infermiera». Inutili i tentativi di opporsi a questi trattenenti disumani: «Ogni tanto ci assiepavano dentro una stanza e ci facevano quelle orribili fatture,» racconta nella sua opera Diario di una diversa, testimonianza del suo internamento. «Io le chiamavo fatture perché non servivano che ad abbrutire il nostro spirito e le nostre menti.»
La Merini trascorse una buona parte della sua vita in manicomio: «Ero matta in mezzo ai matti e sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita.»
Quello della Merini fu un destino condiviso da tante altre donne che poiché pensavano e sentivano troppo intensamente venivano internate.
Durante il regime fascista furono rinchiuse in manicomio donne che avevano manifestato un comportamento ribelle nei confronti dell’autorità, stigmatizzate perché si rifiutavano di sottostare alle regole dei padri, dissidenti politiche, o semplicemente vedove, orfane o donne che con il loro comportamento si allontanavano dall’ideale fascista della donna «angelo del focolare»
Negli anni Sessanta la situazione non era migliorata: una lite in famiglia o con un vicino di casa, un temperamento particolarmente sensibile o delle avventure extra coniugali potevano essere sufficienti per ottenere una diagnosi di «infermità mentale».
In molti casi il manicomio fu il luogo di reclusione di uomini e donne che per qualche ragione non volevano conformarsi. «Il problema è che oggi la gente non pensa più, non sogna più, non ne ha il tempo; invece, il poeta», ci racconta la Merini, «pensa e sogna ed è per questo che è considerato un folle.» Non appena veniva dimessa, la Merini tornava a scrivere, scriveva in ogni momento, su fogli volanti, sulla parete della sua camera da letto, sugli specchi.
Proprio come Van Gogh che nel manicomio di Saint Paul de Mausole, dipinse «La notte stellata» e alcuni dei suoi quadri più belli, preso da un vero e proprio furor creativo, la Merini trasformò l’orrore in poesia.
La sua esperienza, tutto il dolore sofferto divennero la materia viva della sua poetica semplice e spontanea ma al tempo stesso visionaria, irruenta, ricca di pathos. E le poesie della Merini, nate in manicomio, grazie al manicomio, hanno dato voce al dolore di tanti uomini e di tante donne a cui la società e la storia avevano tolto il diritto di parlare ed essere ascoltati.
G.Middei