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Lo Stato neutrale e il suicidio della ragione politica: l’eclissi del bene comune nelle democrazie post-liberali

(Il testo amplia e sviluppa la lezione tenuta in data 19 giugno 2025 per gli iscritti alla formazione della Confederazione dei Triarii) 

L’ideologia dello Stato neutrale e pluralista, cifra distintiva della modernità politica occidentale, rappresenta il compimento teorico e pratico di una progressiva secolarizzazione dell’ordine giuridico, nonché la negazione sistematica del concetto di bene comune così come articolato dalla tradizione filosofico-classica. 

Sotto il pretesto di garantire la coesistenza pacifica tra visioni del mondo incommensurabili, lo Stato si dichiara “neutrale” rispetto ai contenuti sostanziali dell’esistenza umana, rifiutando ogni pretesa di verità sull’uomo e sulla società. Tuttavia, questa neutralità non è affatto neutra: è l’affermazione implicita di una antropologia negativa, fondata sul primato dell’individualismo metodologico, sull’autosufficienza della volontà soggettiva, sulla separazione radicale tra diritto e giustizia. 

Nel pensiero classico, da Aristotele a Tommaso d’Aquino, il bene comune costituisce l’essenza e la finalità intrinseca della comunità politica. Esso non è un’entità sovrapposta ai beni individuali, né un semplice strumento di composizione dei conflitti, ma un bene proprio della collettività in quanto tale: ciò in vista di cui l’ordine giuridico riceve forma e legittimazione. Il bene comune è, per sua natura, razionale, oggettivo e finalistico; esige che la legge, lungi dall’essere mera espressione di volontà formale, si conformi a un ordine normativo anteriore e superiore, quello della “lex naturalis”, che deriva dalla partecipazione della ragione umana alla ragione eterna. In tal senso, l’autorità politica è “serva et ministra iuris”, non fonte arbitraria del diritto. 

Con l’avvento della modernità e la rottura dell’unità metafisico-politica della “civitas christiana”, tale concezione è stata progressivamente dissolta. Il giusnaturalismo moderno (Grozio) ha secolarizzato l’idea di legge naturale, riducendola a istanza razionalistica priva di fondamento ontologico; il contrattualismo ha fondato l’autorità politica non più sulla natura relazionale dell’uomo, ma sul consenso revocabile degli individui sovrani; la sovranità si è trasformata in potere illimitato, mentre il diritto è divenuto prodotto del legislatore positivo. 

In questo processo, il bene comune è stato prima svuotato del suo contenuto veritativo, poi espunto dal lessico politico, sostituito da un vago utilitarismo sociale o da una concezione procedurale della giustizia, priva di sostanza teleologica. Lo Stato neutrale, nell’orizzonte del positivismo giuridico e del pluralismo assiologico, si riduce così a ordinatore di interessi, garante di libertà formali, promotore di una convivenza pacifica fondata sul divieto di ogni pretesa di verità pubblica.

Ovviamente l’apparente imparzialità di questa struttura giuridica nasconde una nuova forma di totalitarismo: quello dell’indifferentismo assiologico, che impone il relativismo come unica ideologia ammessa nella sfera pubblica. La neutralità diventa, paradossalmente, esclusione sistematica di ogni orientamento normativo che rivendichi una fondazione oggettiva, trascendente o razionale del diritto. Il bene comune viene sostituito dal calcolo costi-benefici, la virtù dal consenso, la giustizia dalla conformità procedurale. Dal punto di vista giuridico-costituzionale, ciò comporta una torsione funzionalista delle carte fondamentali, dove i diritti sono interpretati non come derivanti da una struttura teleologica della persona umana, ma come espressioni fluide della volontà soggettiva, continuamente ridefinite dal legislatore o dalla giurisprudenza creativa delle Corti. 

La Costituzione stessa, pensata originariamente come limite del potere a tutela dell’ordine giusto, diventa lo strumento attraverso cui si impongono nuovi “diritti fondamentali”, svincolati da ogni ordine morale naturale, spesso in contraddizione con l’antropologia implicita nella stessa tradizione costituzionale. L’autodeterminazione assoluta dell’individuo, nell’identità, nella sessualità, nella genitorialità, perfino nella morte, diventa la cifra normativa del nuovo costituzionalismo post-liberale, che non è più giusnaturalista né giuspositivista, ma esplicitamente gius-volontarista. In questo quadro, la dissoluzione del bene comune non è una mera deficienza teorica, bensì una catastrofe politico-giuridica. Senza un fine oggettivo che trascenda gli interessi dei singoli, la comunità politica perde la propria forma razionale. 

Lo Stato non è più ordinamento di giustizia, ma spazio neutro per la concorrenza di poteri; la legge non è più “ratio ordinandi”, ma strumento contingente del potere normativo; il diritto non è più legato alla verità, ma alla volontà mutevole di soggetti sovrani. Il risultato non è la libertà, ma la solitudine dell’individuo e l’onnipotenza di un potere amministrativo privo di fondamenti morali. 

E tuttavia, da queste democrazie, che hanno reciso ogni legame con la verità oggettiva, che proclamano la laicità come dogma, che riducono la libertà alla possibilità di autodistruzione, che legittimano ogni desiderio purché vestito da diritto, si levano le voci più veementi contro modelli politici alternativi. 

L’Iran, ad esempio, è frequentemente rappresentato attraverso la lente deformante dei luoghi comuni occidentali, senza alcuna comprensione reale delle sue radici culturali e giuridiche, della struttura metafisica del suo ordinamento, della funzione teologico-politica del suo diritto. 

Non si tratta di difendere modelli teocratici o regimi autoritari, quanto di denunciare l’incoerenza di una civiltà che si pretende giudice del mondo mentre ha smarrito ogni criterio di giudizio. Che può dirsi “civile” e “libera” una democrazia che non conosce più la distinzione tra bene e male? 

Che proclama diritti senza doveri, uguaglianza senza giustizia, progresso senza verità? Il tradimento dello Stato neutrale è, in ultima analisi, il tradimento della ragione. Esso non ha abdicato soltanto alla verità metafisica: ha rinunciato alla politica come arte dell’ordine e della giustizia. Ha sostituito l’unità organica del corpo politico con l’anarchia delle volontà; ha preferito la tecnica al pensiero, l’efficienza alla sapienza, il procedurale al sostanziale. In tale contesto, occorre chiedersi se il paradigma liberale, nella sua forma attuale, rappresenti davvero un traguardo di civiltà o non piuttosto il sintomo di una decadenza spirituale e giuridica senza precedenti. La risposta a tale domanda non è retorica, bensì ontologica: è il fondamento stesso della possibilità di un ordine giusto a essere in gioco.

Prof. Daniele Trabucco – Costituzionalista

In collaborazione con: www.gazzettadellemilia.it

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