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Petrus non innovat, custodit: per un papa come principio visibile della verità immutabile 

L’evento dell’elezione del Sommo Pontefice dopo la morte di Papa Francesco avvenuta in data 21 aprile 2025, pur radicandosi in una procedura canonico-giuridica ben determinata, quale quella delineata nella Constitutio Apostolica “Universi Dominici Gregis” promulgata da San Giovanni Paolo II il 22 febbaio 1996 (e modificata due volte da Benedetto XVI nel 2007 e nel 2013), trascende, nella sua essenza, il mero atto elettivo per configurarsi quale momento teologicamente e metafisicamente denso, in cui si interseca la libertà secondaria della creatura razionale con la causalità principale e ordinatrice dello Spirito Santo. Tale causalità, lungi dall’essere irresistibile, si esplica per “modum illuminationis et inspirationis”, secondo la logica della “cooperatio humana ad gratiam”. Non è, dunque, la volontà divina ad agire “ex necessitate”: essa, detto in modo piú chiaro, opera con una una modalità conforme alla dignità ontologica dell’agente umano, la cui libertà, elevata e non soppressa, rimane principio secondario reale dell’atto eletto. In tale contesto, l’esclusiva competenza dei cardinali elettori non esclude la possibilità, e in certi casi la doverosità, che i fedeli laici, nella misura in cui siano mossi da retta intenzione, dottrina formata e autentico “sensus Ecclesiae”, possano manifestare, “salva reverentia erga Pastores”, un giudizio prudenziale sulle necessità spirituali e dottrinali della Chiesa. Il canone 212, paragrafo 3, del vigente Codex Iuris Canonici del 1983 sancisce tale diritto-dovere con precisione: “Pro sua scientia, competentia et praestantia habent fideles christifideles ius, immo et officium, sua opinione de iis quae ad bonum Ecclesiae pertinent, sacris Pastoribus manifestandi”. Questo intervento, che non usurpa ma integra, non sovverte ma ordina, si fonda sul principio classico della partecipazione ai “munera Christi”, ovviamente non in quanto funzione istituzionale, ma come esercizio di fedeltà teologale alla verità rivelata. Ciò posto, il discernimento sul profilo del futuro Romano Pontefice non può che avvenire “sub ratione Veritatis”, intesa non come entità meramente logico-formale, bensí come “ipsa subsistens veritas”, ovvero Dio stesso nella sua autorivelazione storica e definitiva nel Verbo Incarnato, “plenitudo Revelationis”. La Verità, infatti, secondo l’insegnamento costante della teologia tomista, è “adaequatio intellectus et rei” e, nel caso della fede, “adaequatio intellectus nostri cum Verbo Dei”. Il Pontefice, quale “Vicarius Christi et servus servorum Dei”, è colui che non può, né in foro interno né in foro esterno, arrogarsi il potere di mutare la sostanza del “depositum fidei”, perché tale deposito è costituito, ontologicamente e formalmente, da verità rivelate che hanno in Dio stesso la loro immutabilità ontologica. La Chiesa, in quanto “societas perfecta” fondata da Cristo, non si costituisce a partire da un consenso umano o da una proiezione storica del “sensus fidelium” (vero cardinale Kasper?), ma da un atto positivo di fondazione divina, “ordinato ad salutem animarum”, che è il fine supremo di tutto l’ordinamento canonico (si veda il canone 1752 del Codex iuris canonici del 1983). Ne consegue che la figura del Romano Pontefice non è quella di un legislatore in senso moderno, ovvero di colui che costituisce il diritto mediante volontà sovrana, bensì di un “minister veritatis”, vincolato in primis al diritto divino naturale e positivo e, solo secondariamente, autore di leggi ecclesiastiche, in quanto conformi alla Rivelazione e ordinate al fine ultimo. La sua libertà non è assoluta, ma “ex parte subiecti”, ovvero relativa alla sua conformità alla legge eterna (“lex aeterna”) partecipata nella legge naturale (“lex naturalis”) e nella Rivelazione (“lex revelata”). Alla luce di tutto questo, si deve affermare con chiarezza che la crisi contemporanea, di natura precipuamente teologica e metafisica, esige un Papa non interprete dello spirito del tempo, quanto lettore dei segni dei tempi “sub specie aeternitatis”. L’uomo contemporaneo non è tanto smarrito per difetto di comunicazione o di inclusione, bensí per l’occultamento della finalità ultima dell’esistenza: la visione beatifica. Un pontificato che si concentri sull’efficienza pastorale, sul dialogo interreligioso disancorato dalla verità cristologica e su una pseudo-sinodalità in senso democratico al di lá delle espressioni formali, tradirebbe l’essenza della “munus Petrinum”, che non è il potere di innovare, ma l’obbligo, decondo l’insegnamento paolino, di custodire, confermare, e trasmettere ciò che è stato ricevuto: “Tradidi quod et accepi” (1 Cor 15,3). Non “creatio ex nihilo, ma traditio ex fonte”. In un tempo in cui la teologia si dissolve in sociologia religiosa e il diritto canonico viene relativizzato da prassi pastorali difformi dalla norma oggettiva, il ministero petrino dovrà esercitarsi con “fortitudo e sapientia”, secondo il modello del “rector sapientissimus” delineato da San Tommaso (1225-1274). Non sarà sufficiente l’uomo del dialogo (da sostituire con l’annuncio), se mancherà l’uomo del principio. Non basterà il pastore accogliente, se non sarà anche custode vigilante. La sollecitudine pastorale, se scissa dalla verità dottrinale, decade in amministrazione mondana; la misericordia, se priva di giustizia, si fa complice dell’errore. Che il prossimo Papa sappia, come un nuovo Gregorio Magno difendere la retta dottrina; come un nuovo Leone Magno confessare la fede di Calcedonia; come un nuovo Pio X rigettare le eresie del modernismo sotto tutte le sue forme. Solo così, “Veritatis custos”, egli potrà essere autenticamente “Christi Vicarius” e guida sicura del Popolo di Dio verso l’unico fine che giustifica l’esistenza della Chiesa nella storia: la salvezza eterna delle anime, “salus animarum suprema lex”.

Prof. Daniele Trabucco – Costituzionalista

In collaborazione con: www.gazzettadellemilia.it

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