Viviamo in un’epoca che ha ampliato in modo rivoluzionario il concetto di identità. Se una volta le categorie di genere e orientamento sessuale erano rigidamente definite, oggi vediamo un panorama più complesso e sfaccettato.
“Sono uomo, sono donna, sono lesbo, sono gay”: queste parole rappresentano etichette, ma possiamo ancora dire che catturino realmente chi siamo?
Francamente sembra che questa ideologia “gender” non rispetti il proprio concetto, semmai ha più l’aspetto di un virus il cui vettore di contagio sia la persuasione politica progressista dello stravolgimento del concetto di persona.
Questo comporta una persuasione collettiva che ha lo scopo di modificare l’idea stessa di identità, lanciandola verso non si sa bene quale tipo di evoluzione.
I giovani di oggi, ma anche molte persone di generazioni precedenti compreso Papa Francesco, stanno sfidando l’idea che l’essere umano possa essere incasellato in poche e semplici categorie. In un mondo dove si parla di “non-binarietà”, “gender fluid”, “queer” e “panromantico” e chi ne ha più ne metta, i confini di genere e orientamento vorrebbero trasformare l’altruismo a buon mercato, più di quanto avessimo immaginato.
Questo spazio di pseudo “moderna” autenticità, scegliendo i termini che meglio rappresentano il proprio sentire, è un pericoloso abbraccio culturale dove basta un niente per trovare il gendarme di turno, pronto a sfoderare la propria spada per dividere gli esseri umani dal pensiero collettivo.
Ma allora verso quale mondo più inclusivo stiamo andando?
Il fatto che oggi ci si chieda “cosa siamo realmente” non è solo un gioco filosofico, ma è come se l’individuo rinunciasse alla possibilità di metterlo in discussione perfino per sé stesso, isolandosi in una dimensione di insindacabilità.
Essere donna, uomo, lesbica, gay, bisessuale, transgender, queer o altro non implica più un limite di esperienze o aspettative, ma diventa piuttosto una sfumatura della propria individualità, anche se da più l’idea di aver perso il senso dei termini identità, genere e corpo.
Il linguaggio della comunicazione globale vorrebbe orientarci sulla strada che l’identità non è più, se mai lo è stata, un’etichetta immutabile, ma un processo in continuo divenire. Significa avere il coraggio di definirsi senza dover per forza spiegarsi, di essere accettati per ciò che si è anche quando non ci si riconosce in un termine specifico.
Il discorso però pone l’accento sull’idea che il dominio dell’indiscutibile renda ogni aspetto del sé completamente soggettivo e sottratto a qualsiasi valutazione esterna o dialogo critico.
Questo atteggiamento estremo verso la soggettività può portare a un paradosso: il soggetto è libero da qualsiasi giudizio, ma al contempo finisce per svuotare la propria soggettività di un reale rapporto con l’altro e anche con sé stesso, in quanto elimina il confronto o il dubbio.
Alla luce di tutto questo, la vera domanda potrebbe non essere più “sono uomo, donna, gay, lesbo?”, ma piuttosto “sono autentico?”.
Oggi, ciò che definiamo identità sembra riflettere una voglia di vivere con coerenza rispetto al proprio sé profondo, senza sentire il bisogno di aderire a stereotipi o categorie. Questa libertà di essere ciò che si è, con la propria complessità, fluidità e unicità, la si vorrebbe rappresentare come una sfida nell’epoca in cui viviamo.
In realtà, il passaggio linguistico del transgender, che inizialmente riflette una flessibilità e un superamento delle categorie rigide di genere, è invece l’anticipazione del transumanesimo, ovvero dell’idea che l’essere umano possa superare i suoi stessi limiti naturali attraverso la tecnologia, l’ibridazione o la manipolazione bio-tecnica.
Questo “smantellamento” dell’umano sembra quindi indicare una progressiva perdita dei confini che definiscono l’identità e persino l’essenza umana, a favore di una condizione sempre più fluida e indefinita.
L’umano rischia di sciogliersi in un contesto che lo rende malleabile e in costante mutazione, fino a sfociare in un transumanesimo che dissolve i tratti distintivi dell’umanità in un orizzonte post-umano e di controllo sociale, dove il “sé” non è più legato alla corporeità, alla finitezza o a una struttura stabile.
La politica woke dell’ideologia dell’identità è una leva che può, alzando la paratia della diga, deviare il corso dell’acqua alimentando terreni di concetti prefabbricati, deviando il modo irreversibile e profondo, il cammino genuino di un’autentica autodeterminazione ed esplorazione personale.
Andrea Caldart