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Il mondo del lavoro tra disoccupazione giovanile e precariato

«Ho studiato scienze politiche, mi sarebbe piaciuto lavorare nel mondo del sociale, dell’accoglienza ai rifugiati oppure nel terziario – racconta L., 34 anni, residente in un comune dell’hinterland romano, quando chiediamo informazioni sulle difficoltà incontrate nel trovare lavoro. «Non è stato facile – prosegue il giovane – perché il canale di reclutamento delle cooperative è molto opaco, e dopo aver trovato lavoro come operatore in un CAS (Centro accoglienza straordinario), con regolare contratto, ho subito riscontrato scarsa serietà nel rispetto del mio orario di lavoro. Ma il problema più grande è stato che dopo 4 mesi di lavoro non avevo visto ancora un centesimo di paga dello stipendio. Ho ottenuto quanto mi spettava solo dopo il ricorso a un sindacato. Dopo questa esperienza ho deciso di chiudere con questo tipo di settore».

All’epoca L. aveva 30 anni, oggi ne ha 34 ed è sempre precario ma nella scuola pubblica: almeno lì lo pagano regolarmente.

Un mondo del lavoro in sofferenza quello presente nel Belpaese. La testimonianza diretta offre un’immagine immediata della proliferazione di forme precarie di occupazione, ma a queste si aggiungono gli effetti della disoccupazione soprattutto giovanile e il declino del potere d’acquisto dei dipendenti.

Un’immagine che però è facilmente ricavabile anche dai dati recentemente forniti dall’Istat, a volerli leggere con attenzione e senza facili trionfalismi.

Vediamo il perché.

Il lavoro in Italia nel 2021: giovani disoccupati e lavoratori a tempo determinato

I mass media si sono concentrati come ovvio sulla crescita degli occupati avvenuta nel settembre 2021 rispetto al mese precedente (+0,3%, pari a una crescita di 59mila unità) e soprattutto sul dato più significativo della crescita di chi lavora rispetto al settembre del 2020, con un saldo di +273mila unità che vale in percentuale un 1,2% in aumento.

La crescita, peraltro, sarebbe forte soprattutto nella componente femminile (+0,3% su base mensile, +1,1 su base annuale), ma riguarderebbe anche gli uomini (+0,1 su base mensile, +0,9 sull’annuale), la fascia tra i 25 e i 34 anni e addirittura gli ultracinquantenni. La disoccupazione calerebbe invece al 9,2% rispetto ad agosto (la media Ue è comunque del 7,4% secondo Eurostat).

Tutto bene quindi? La risposta sembra molto meno positiva, se analizziamo un po’ i numeri: innanzitutto per la percentuale “esplosiva” raggiunta dalla disoccupazione tra i più giovani, nella fascia 15-24 anni, che cresce ulteriormente a settembre rispetto ad agosto del 1,8% e sfiora il tetto del 30% (29,8%, mentre nell’Unione Europea praticamente si dimezza toccando il 15,9%).

Una tendenza negativa che pare ancor più chiara se si mette in relazione il dato di settembre 2021 con quello di settembre 2020: nonostante la situazione pandemica sia molto migliorata e nonostante la ripresa economica, il tasso di disoccupazione giovanile rimane invariato rispetto a 12 mesi prima.

Ma è anche la modalità dell’occupazione a destare preoccupazioni: ad aumentare con la percentuale più alta sono i contratti a tempo determinato (+3,3% tra settembre e agosto 2021 e +13,2% rispetto allo stesso mese del 2020). Un’occupazione precaria pertanto.

Il mondo del lavoro in sofferenza: contratti scaduti e perdita del potere d’acquisto

Il malessere dei lavoratori purtroppo non è solo dovuto alla disoccupazione e alla precarietà: anche chi ha un lavoro non se la passa bene. A evidenziarlo è ancora una volta l’Istat con un report sui contratti collettivi scaduti o meno e sul livello delle retribuzioni nel terzo trimestre del 2021.

Secondo l’Istituto di statistica, a fine settembre del 2021 solo il 47% dei lavoratori in Italia avrebbe un contratto attualmente in vigore, mentre il tempo medio di attesa per ottenere un rinnovo tra settembre di quest’anno e lo stesso mese del 2020 è cresciuto da 14,1 mesi a 15,2. Inoltre, la retribuzione media oraria è cresciuta dello 0,7% rispetto a un anno prima, mentre l’inflazione è aumentata nello stesso periodo del 2,6%.

Ma bisogna considerare che il modesto incremento delle retribuzioni orarie è frutto di una media tra i diversi settori produttivi. Bisogna tener conto, infatti, che alcuni comparti non hanno avuto alcun aumento e i “nomi e cognomi” di questi svantaggiati sono: pubblica amministrazione, tessile, abbigliamento e lavorazione pelli, edilizia, commercio, farmacie private.

Insomma, non pare proprio ora di festeggiamenti.

Stefano Paterna

Fuori dal Silenzio

SatiQweb

dott. berardi domenico specialista in oculistica pubblicità

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