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La riforma fiscale del governo è una partita aperta

Il Consiglio dei Ministri numero 42 si è riunito il 19 ottobre 2021 e ci ha comunicato l’approvazione del Documento programmatico di bilancio o per chi ha la passione per le sigle, Dpb. Stando a quanto ci raccontano i media “ufficialisti”, il Dpb, che si basa sui dati della Nadef 2021 e prepara gli interventi inclusi nella prossima legge di bilancio, prefigurerebbe una importante riforma del sistema fiscale italiano. In realtà, finora, abbiamo certezze sul rinvio al 2023 delle cosiddette “plastic” e “sugar tax”, sul taglio dell’Iva dal 22 al 10% sui prodotti assorbenti per l’igiene femminile e su un primo generico intervento di riduzione degli oneri fiscali. Si converrà che è un po’ poco per capire dove andranno a parare quelli del “governo dei migliori” in tema di fisco. È tuttora in corso una grande partita all’interno della vasta maggioranza che sostiene il governo Draghi sul come destinare le risorse disponibili in legge di bilancio. La coperta complessiva della manovra dovrebbe avere una “lunghezza” di 24-25 miliardi di euro, dei quali circa 8 dovrebbero servire alla riforma fiscale, in particolare all’addolcimento dell’aliquota del 38% per cento dell’Irpef che grava sui circa 7 milioni di cittadini che stanno tra i 28.001 e i 55.000 euro. Si tratta in pratica di ceti medi (in parte anche medio bassi) che hanno 11 punti di tassazione in più rispetto allo scaglione precedente: ovvero chi è tra i 15.001 e i 28.000 euro e viene tassato al 27%.

Revisione del cuneo fiscale

In particolare, l’attenzione dei mass media si concentra sul taglio del cuneo fiscale: ovvero di tutta la differenza che c’è tra lo stipendio lordo pagato dalle imprese e il reddito netto percepito dal lavoratore e che in sostanza è fatta da imposte dirette, indirette e contributi previdenziali. È ovvio che quando si parla di “taglio delle tasse” tutti siano propensi a stappare bottiglie di spumante, il problema però è che l’effetto di cosa si taglia è in rapporto a cosa viene tagliato. Nel caso del cuneo fiscale, ad esempio, il taglio corrisponde a una diminuzione degli oneri per le imprese e per i lavoratori, ma anche a un aumento degli oneri a carico dello Stato. Ora dato che la pressione fiscale in Italia, considerata la dimensione dell’evasione fiscale (oltre 100 miliardi all’anno nel periodo 2015-17) pesa in gran parte sui lavoratori dipendenti, il taglio delle tasse rischia di essere una partita di giro che porta a un peggioramento della quantità e/o qualità dei servizi pubblici (salario indiretto per i dipendenti). Si dirà: però avremo di più in busta-paga. Certo, ma se non si avvia una stagione di rinnovi contrattuali dal pubblico impiego al comparto privato, il vantaggio di avere un po’ più di soldi sarà mangiato dalla necessità di pagare per avere servizi non più gratuiti, a maggior ragione in un periodo come questo a inflazione crescente.

Le raccomandazioni dell’Ocse

Nel mezzo dei “tormenti” della maggioranza sul che fare in materia fiscale, il 20 ottobre c’è stata l’audizione di alcuni rappresentanti dell’Ocse alla Commissione di bilancio del Senato sul Rapporto economico 2021 sull’Italia. Tra le varie raccomandazioni pervenute ai senatori, c’è stata anche quella del taglio del famigerato cuneo fiscale che a detta dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico è il quinto più alto tra tutti i paesi aderenti. Peraltro, secondo l’Ocse questa pressione fiscale avrebbe anche un altro fattore negativo da prendere in considerazione, ovvero il fatto che la percentuale di lavoro dipendente nel nostro paese sia solo al 57% della popolazione attiva nel lavoro, mentre nella media dei paesi aderenti è al 67%. Ora sarà solo un’opinione personale, ma all’autore di queste righe sembra più probabile un’altra cosa: ovvero che sia il “rachitismo” e la frammentazione strutturale delle imprese produttive in Italia (si guardi a uno studio riportato dal quotidiano Il Sole 24 Ore nel 2019) a dettare la minore percentuale di lavoro dipendente. È chiaro poi che il cuneo fiscale si “adagia” su quello che è il tessuto produttivo e occupazionale, certamente non favorendone la crescita, ma solo come fattore secondario.

Dubbi del governo su Irpef e Irap

Se a Palazzo Chigi si pensa anche all’abolizione del contributo per la Cuaf, la Cassa unica assegni familiari che costa due miliardi di euro e va ancora a favore delle aziende, altri dubbi assillano le varie componenti del governo. C’è chi pensa sia urgente mettere fine all’Irap, imposta che costituisce vero e proprio fumo negli occhi per le imprese, soprattutto se piccole e medie, che però serve in gran parte a finanziare la sanità pubblica. L’abolizione costerebbe 12 miliardi di euro. Se si fa una semplice somma dei costi finora elencati e si aggiunge la necessità di intervenire su altre voci come ad esempio il caro bollette o il reddito di cittadinanza, pare evidente che la prossima manovra potrebbe essere causa di più di un mal di testa per chi siede attualmente al governo. Per chi deve osservare dall’esterno, più che mai la partita tra i vari interessi in gioco è del tutto aperta, ma non è lecito attendersi notizie rosee per chi vive di busta-paga.

Stefano Paterna

Fuori dal Silenzio

SatiQweb

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