Non è ancora ufficialmente cominciata l’estate, eppure il clima di terrore è già stato attivato. Puntuale come ogni anno, la macchina mediatica del panico climatico ha iniziato a girare a pieno regime: titoli apocalittici su temperature record, servizi televisivi sulla “sacralità dell’acqua”, mappe rosso fuoco anche con 27 gradi all’ombra. Un’informazione ripetitiva e martellante che più che informare, orienta, manipola e condiziona.
Nel frattempo, la realtà, quella vissuta dalle persone comuni, racconta un’altra storia: piogge intense, temporali improvvisi, nubifragi che si abbattono su città e campagne in pieno giugno al nord, mentre mai primavera così piovosa al sud. Eppure, ci dicono che “l’Italia è a rischio siccità”, e che bisogna prepararsi a nuove emergenze idriche. Come è possibile che piova per settimane e al tempo stesso “manca l’acqua”?
La risposta è sempre la stessa: la verità è selettiva, filtrata da un sistema mediatico che ha rinunciato da tempo a porsi domande scomode. Nessun telegiornale parla delle reti idriche che disperdono fino al 50% dell’acqua potabile ancora prima di arrivare ai rubinetti. Nessuno si interroga sul perché gli invasi non vengano ampliati, perché le dighe esistenti non vengano manutenute o potenziate, o perché non si investa seriamente nella raccolta e conservazione delle acque piovane.
Anzi, accade l’assurdo: quando gli invasi sono pieni, l’acqua viene rilasciata nei fiumi e lasciata defluire verso il mare, ufficialmente per “evitare rischi idrogeologici” o “preservare la sicurezza degli impianti”. Ma il sospetto, ormai concreto, è che questa dispersione non sia solo frutto di inefficienza, bensì di una precisa strategia: creare artificialmente scarsità per giustificare la dipendenza dai grandi consorzi idrici e trasformare l’acqua in una risorsa privatizzata da far pagare a peso d’oro.
Chi paga il prezzo più alto? Gli agricoltori, sempre più spesso costretti a rinunciare alla semina perché l’accesso all’acqua è diventato un lusso. I costi delle concessioni e delle irrigazioni aumentano, le forniture sono intermittenti, e molte piccole e medie aziende agricole chiudono o smettono di coltivare. Un suicidio economico e culturale per interi territori.
E tutto questo mentre piove. Mentre le falde si potrebbero rigenerare. Mentre i bacini potrebbero essere usati per trattenere l’acqua per i mesi secchi. Ma no: si continua a buttare acqua al mare, per poi gridare alla crisi.
Tutto, come sempre, viene ricondotto a un unico dogma: “la colpa è del cambiamento climatico”. Nessuno può mettere in discussione questa verità rivelata. Chi osa dissentire, proporre spiegazioni alternative, o semplicemente porre domande legittime, viene subito ridicolizzato, isolato, bollato come “negazionista” o “complottista”. È una strategia rodata: demonizzare il dissenso per mantenere il controllo sul racconto e sul profitto.
Ma c’è di più. In un contesto dove fenomeni atmosferici anomali diventano sempre più frequenti, nessuno si azzarda a toccare certi temi tabù, come quello delle modificazioni climatiche artificiali, delle tecnologie di aerosol atmosferico, delle operazioni di geoingegneria. Eppure, documenti, brevetti e interrogazioni parlamentari a livello internazionale esistono. Perché se ne parla così poco? Perché tutto viene bollato come fantasia, quando basterebbe aprire un dossier pubblico e trasparente per fare chiarezza?
L’ambiente sta diventando il teatro di una pericolosa e inquietante manipolazione emotiva. Dietro parole rassicuranti come “sostenibilità” si cela una realtà profondamente contraddittoria e allarmante: si continuano a tollerare, quando non a incentivare, monoculture intensive, cementificazioni selvagge, sprechi sistemici. La tanto sbandierata “transizione ecologica” si traduce sempre più spesso in decisioni imposte dall’alto, centralizzate, prese da comitati tecnici e organismi distanti anni luce dai bisogni e dalle specificità dei territori. A tutto questo si aggiunge un fenomeno ancor più preoccupante: la progressiva sostituzione delle colture con distese sterili di pannelli fotovoltaici, l’abbattimento di alberi per far spazio ad antenne e pale eoliche. Un ambientalismo di facciata che rischia di svuotare di senso la stessa idea di rispetto per la natura, sacrificata sull’altare di interessi tecnocratici e logiche industriali travestite da progresso.
Nel frattempo, l’acqua, che dovrebbe essere un diritto e un bene comune, viene trasformata in leva di controllo, prima psicologico, poi economico. Dalla “campagna della paura” alla “tassa verde”, il passo è breve.
L’ambiente non può più essere raccontato solo attraverso le lenti del marketing climatico. Serve una nuova stagione di trasparenza, confronto libero, pluralismo scientifico e responsabilità locale. Perché la verità non si costruisce a colpi di hashtag o allarmi continui, ma con dati, onestà intellettuale e coraggio di andare oltre le versioni comode.
In un’epoca in cui si ha paura di dire semplicemente “guardiamo meglio”, il vero rischio non è solo la siccità. È la desertificazione del pensiero.
Andrea Caldart