In un’azienda di Parma che si occupa di servizi alle imprese che ho il piacere di seguire professionalmente dal primo luglio si è unito al Team un nuovo collaboratore quarantenne che mi ha sorpreso per l’educazione con la quale si approccia, giacca, cravatta, stretta di mano precisa, un tono di voce giusto, voglia di imparare. Non sono riuscito a trattenermi dal parlare con lui dei valori che lo animano e che lo rendono l’uomo che si rappresenta e per quanto il colloquio sia durato poco, ho avuto in mente per diversi giorni le nostre parole. Parallelamente ho analizzato alcuni dati aziendali attraverso portali che utilizzano l’intelligenza artificiale e mentre traevo i risultati il pensiero si è fermato sulla differenza che potrà esserci tra algoritmi e valori umani.
Oggi, l’algoritmo è diventato un protagonista silenzioso ma costante della nostra quotidianità. Lo ritroviamo nei social network, nei motori di ricerca, nelle app che usiamo per orientarci, acquistare, prenotare. E, sempre più spesso, anche nei luoghi di lavoro. La crescente automazione e l’adozione diffusa di tecnologie intelligenti stanno trasformando radicalmente la gestione delle risorse umane. Un processo tanto rapido quanto profondo, al punto da aver attirato l’attenzione dell’OCSE, che ha recentemente pubblicato un report intitolato “Algorithmic management in the workplace”. Il documento riflette su una nuova frontiera della gestione aziendale: quella in cui sono le macchine – o meglio, i software – a organizzare, monitorare e valutare l’attività dei lavoratori
Gli algoritmi decidono cosa vediamo, cosa compriamo, a chi parliamo. L’intelligenza artificiale, nei suoi molteplici usi, non solo assiste l’essere umano, ma comincia a sostituirlo in attività cognitive, relazionali, perfino creative. È un cambiamento epocale, che trasforma il lavoro, la comunicazione, l’apprendimento e le relazioni sociali.
Mi pongo una domanda che immagino sia condivisa in questo periodo: cosa resta dell’essere umano in un mondo governato da logiche algoritmiche?
Gli algoritmi non sono innocui elenchi di istruzioni. Riflettono scelte, priorità, obiettivi. Quando vengono utilizzati per prendere decisioni – dalla selezione del personale alla valutazione del rischio di credito, dall’assegnazione delle priorità sanitarie alla gestione dei flussi informativi – portano con sé i criteri di chi li ha programmati, e spesso li applicano senza contesto, senza empatia, senza discernimento.
La promessa dell’algoritmo è efficienza, ma il rischio è disumanizzazione. Quando ogni comportamento viene ridotto a un dato, ogni interazione ad una probabilità, ogni persona a un profilo, perdiamo qualcosa di essenziale: la complessità, l’imprevedibilità, la profondità dell’umano.
Dal punto di vista delle imprese, il vantaggio appare chiaro: maggiore efficienza, ottimizzazione delle risorse, tempi di risposta più rapidi. L’algoritmo non si distrae, non si stanca, non interpreta soggettivamente le performance. È imparziale – almeno in teoria – e gestisce grandi quantità di dati in modo veloce e coerente.
Tuttavia, questa apparente neutralità pone interrogativi complessi. Cosa accade quando un algoritmo valuta se un lavoratore “merita” un bonus o una penalizzazione? Chi controlla il controllore? Quali margini di contestazione ha il lavoratore di fronte a una decisione presa da una macchina, spesso priva di trasparenza?
Il rischio, sempre più concreto, è che il lavoratore venga ridotto a una variabile numerica, ad un risultato da ottimizzare, perdendo riconoscimento, identità e valore umano. È il lato oscuro del management algoritmico, che in molti vedono come una forma moderna di taylorismo digitale, in cui la persona scompare dietro al dato.
L’intelligenza artificiale non ha coscienza, emozioni, responsabilità morale. Può imitare comportamenti umani, ma non comprendere il dolore, la gioia, l’etica. Può apprendere da dati passati, ma non può progettare un futuro giusto senza che siano gli esseri umani a indicarne la direzione.
La grande sfida non è “quanto l’IA può fare”, ma chi vogliamo diventare noi mentre l’IA si sviluppa. Non possiamo permettere che la tecnologia corra più veloce della nostra capacità di darle senso. E questo ci riporta a una parola spesso dimenticata: educazione.
In un tempo dominato dalla logica algoritmica – dove tutto è automatizzabile, tracciabile, ottimizzabile – serve una nuova forma di educazione. Un’educazione che non sia solo tecnica, ma profondamente umana. Che formi cittadini capaci di pensare, di porsi domande, di distinguere tra ciò che è utile e ciò che è giusto. Educare non significa solo “insegnare a usare l’IA”, ma anche – e soprattutto – insegnare a mantenere la propria umanità davanti all’IA. Significa coltivare valori come il rispetto, la responsabilità, la solidarietà. Significa imparare a vivere nel dubbio, nella lentezza, nella complessità: tutte cose che gli algoritmi non sanno fare.
Sicuramente non possiamo fermare l’evoluzione tecnologica, e forse non dobbiamo. Ma possiamo e dobbiamo orientarla. Dobbiamo immaginare un nuovo umanesimo, capace di integrare l’innovazione con il senso, il progresso con l’etica. Un umanesimo che ponga la persona – con la sua dignità, i suoi limiti, la sua unicità – al centro del cambiamento.
Gli algoritmi possono aiutarci a risolvere problemi complessi, ma non devono mai sostituirsi al nostro dovere di scegliere. L’intelligenza artificiale può ampliare le nostre possibilità, ma non deve mai indebolire il nostro impegno ad educare, comprendere, costruire una società giusta.
In un mondo intelligente, è ancora più importante restare umani ed a questo tanto può fare la scuola, tantissimo possono fare i Maestri, i Professori i genitori ma anche gli Imprenditori nel realizzare corsi di formazione e lo stesso personale nel non cercare soltanto diritti e stipendi ma offrendo sapienza e cultura.
Mario Vacca
In collaborazione con: www.gazzettadellemilia.it