Una storia commovente, intrisa di dolore e illuminata dalla speranza, quella di Matteo Porru, pluripremiato scrittore. La sua storia è raccontata in un documentario del regista Michele Garau, “Matte”, visibile su RaiPlay.
Chi è Matteo Porru?
Matteo Porru è un fratello maggiore, un migliore amico, un figlio, un nipote. Incidentalmente, uno che inventa storie per non sentirsi solo, e soprattutto, uno che inventa storie, sapendo che forse questo è l’unico antidoto contro il male del mondo. Invento storie e costruisco mondi dove poter credere ancora negli “ovali” e non nei “cerchi”, in contrasto con la tendenza del mondo di disegnare cerchi perfetti, chirurgici e geometricamente impeccabili. Secondo me, invece, il bello della vita, è che tutti possiamo permetterci di essere “ovali”. Se dovessi dirti chi è Matteo Porru, ti direi che è uno che disegna ovali e che ha sempre disegnato ovali per tutta la vita.
Come nasce “Matte”, il tuo docufilm?
Il documentario nasce tre anni fa circa, dall’idea di un regista meraviglioso, cagliaritano, che si chiama Michele Garau, con cui avevo già collaborato, e che mi propose di raccontare la mia storia. Di fronte ad una tale proposta mi sono chiesto che senso avesse raccontare la mia storia, ma soprattutto quale storia raccontare, quella del pilota o dello scrittore, che ha avuto tutti i suoi casini e poi è diventato un autore di successo tradotto all’estero? La Le mie domande trovarono una risposta grazie a Michele, che mi propose di raccontare la “storia del ragazzo che voleva diventare pilota e che è riuscito a volare”. In quel momento ci siamo riconosciuti, e lui ha capito che storia volevo raccontare e che colore volevo dare a quella storia. Da quel momento è iniziata un’avventura pazzesca, abbiamo girato l’Europa insieme rievocando tutto ciò che mi era accaduto. La realizzazione di questo docufilm è stato un grande rito catartico per me, per tutti i protagonisti coinvolti nel documentario, per le persone che mi vogliono bene e per quelle che ho incontrato.
Tu hai affrontato un calvario lungo vent’ anni, a causa di un tumore, che ti è stato diagnosticato quando avevi solo tre anni, e dei successivi interventi di ricostruzione. Secondo te la sofferenza ha un senso? Tu hai trovato un senso alla tua?
La sofferenza ha un senso, se sei capace di accoglierla, cosa non facile perché essa è ruvida, irregolare, e soprattutto perché è straordinariamente soggettiva la reazione che ognuno di noi ha rispetto alla sofferenza. Per affrontare la sofferenza serve un incrocio tra fortuna e abilità di accoglierla, fortuna che posso dire di aver avuto. Il fatto di accogliere la sofferenza, non vuol dire che tu sia stato in grado di comprenderla fino in fondo, ma se riesci ad attraversarla tutta, ti da due possibilità, o ti lascia letteralmente andare a te stesso oppure, se riesci ad intercettare lo spirito della caduta e ad apprendere quegli elementi che sono e sembrano così devastanti e mandarli invece in alto, in una vita che ti lancia verticalmente e voracemente in basso, allora riesci a disinnescare quel meccanismo per cui il dolore ti abbatte. Se mentre cadi, riesci ad intercettare qualcosa che ti fa risalire, a quel punto hai colto qualcosa di straordinariamente importante e salvifico. Nel mio caso, in un mondo che cadeva, io volevo fare il pilota, e questa è stata la mia salvezza, il fatto di voler invertire il senso delle cose per guardare il cielo e non il buio che avevo sotto.
Nel docufilm “Matte”, tuo nonno dice: “è facile raccontare di Matteo, ma anche difficile, a causa delle vicissitudini che ti hanno visto protagonista”. Per te, raccontarti, è facile o difficile?
È estremamente facile, perché è stato difficile. Nel momento in cui ti conosci, e ti conosci a fondo, e conosci i tuoi meccanismi e i sotterfugi, i nascondigli e i tuoi coni d’ombra, a quel punto diventa facile raccontarsi, perché sai esplorarti, sai dove andare a cercarti, e ogni tanto, sai anche come non trovarti. Non trovarsi, in alcuni momenti, secondo me è una grande strategia, che utilizziamo nella vita quando siamo in una situazione di stallo. La scrittura è per me un grande aiuto, perché mi ha permesso di conoscermi e di comprendere le parti migliori e anche quelle peggiori di me stesso.
Cos’è per te la “speranza”?
È la capacità di legittimare un domani. Se riesci a legittimare un domani, nelle parole, nei comportamenti, nei gesti, nelle intenzioni, vuol dire che hai speranza. E io credo che la speranza sia la più forte forma di bellezza e di libertà.
Tu hai due grandi passioni: gli aerei, quindi il volo, e la scrittura. Sempre nel docufilm, tuo padre sostiene, che tu e la passione per gli aerei, siete nati insieme. Tu stesso dici: “volare è tutta la mia vita”. Cosa evoca nel tuo animo il volo?
Il volo evoca prima di tutto la libertà e in secondo luogo, la verità, perché dall’alto, tutte le cose diventano vere. Io, mi capacito delle cose che mi accadono, quando volo. Il volo è un momento che ritaglio per me, di pace di evasione dalla vita che vivo, dalle cose che odio e che amo. E’ un momento in cui mi ritrovo, o forse in cui trovo parti di me, che per troppo tempo sono state lontane.
Passiamo alla scrittura. Quant’è importante per te scrivere?
È fondamentale. Senza la scrittura oggi non vivrei, perché è proprio attraverso la scrittura che ho trovato il mio posto nel mondo, parola dopo parola, storia dopo storia. Di storie ne ho scritte davvero tante e questo mi ha permesso di posizionarmi in uno spazio e di collocarmi in un tempo.
Tu hai un fratello più piccolo, a cui sei molto legato, e di lui hai detto: “mio fratello mi ha salvato la vita”. In che modo? Inoltre, quant’è importante, nei momenti difficili, avere accanto i fratelli?
Senza mio fratello Francesco, non avrei trovato l’energia e la voglia di vivere che ho, perché da quando lui è nato, io vedo il mondo a colori ed è un mondo che acquisisce sensi, dimensioni e anche altri aspetti che non avrei potuto notare senza di lui. Avere i fratelli accanto, è fondamentale per chi ce li ha. Chi non ce li ha, trova sempre qualcuno a cui affidarsi, perché la fratellanza è anche un’affinità elettiva, e noi dobbiamo affinare la nostra capacità di trovare risposte nelle persone che abbiamo accanto e condividere le domande.
Cosa diresti a quei bambini che stanno affrontando la malattia che hai affrontato tu?
Di interpretarla come l’ho interpretata io. Io non ho mai pensato alla malattia come ad un qualcosa di definitivo, come un qualcosa di perentorio, o di sospeso e maledetto. Ho sempre pensato alla malattia come un viaggio, che devi fare, per tornare a casa, e per tornare a casa, ho sempre cercato di recuperare chi fossi e di recuperare la storia e i luoghi della mia vita.
Roberta Minchillo