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A Brunetta non piace lo smart

Che a Brunetta non piacesse lo smart working lo si era capito da tempo. Al Forum Ambrosetti a Cernobbio si è avuta solo l’ennesima conferma: dal 1° gennaio 2022 il lavoro da remoto passerà nel pubblico impiego a un tetto obbligatorio del 15% della forza lavoro, dopo che con il ministro predecessore di Brunetta, Fabiana Dadone, aveva raggiunto il 50%.

Del resto la notizia era arrivata già in aprile con il Decreto Proroghe che prevedeva che nei Piani organizzativi del lavoro agile (Pola) della pubblica amministrazione, la quota di lavoro obbligatoriamente in smart passasse dal 60 appunto al 15%.

Con la caratteristica mancanza di memoria dei “media mainstream” si è dato risalto a una notizia vecchia di cinque mesi: il che non significa che la conferma del ministro Brunetta non meriti però una riflessione. Innanzitutto, perché l’esternazione ministeriale sullo smart working ha riacceso lo scontro interno alla maggioranza extralarge al governo: il centro destra si è schierato con Brunetta, mentre a favore del lavoro agile sono rimasti i Cinque Stelle che ne hanno fatto una bandiera e il Pd.

Poi perché al netto degli schieramenti politici è necessario capire i motivi per i quali il lavoro in modalità agile venga fortemente ridimensionato dopo l’esplosione dovuta alla pandemia da Covid-19 peraltro tuttora in corso.

I pro e i contro dello smart working

Brunetta ha alcune buone ragioni che giocano a favore di un ridimensionamento del lavoro in remoto. Ad esempio, la pubblica amministrazione da qui al 2026 dovrà “mettere a terra” progetti per 235,6 miliardi di euro: uno sforzo epocale concentrato in un tempo relativamente breve. È comprensibile che ci si preoccupi di sapere che i dipendenti siano in un ufficio con la strumentazione necessaria e non in giro per il mondo con una dotazione informatica inadeguata.

Il ministro per la pubblica amministrazione ha citato esplicitamente le pratiche relative al Bonus 110%per gli interventi edilizi: “Un ritorno in presenza necessario anche per rendere pienamente effettive le riforme già attuate, come la semplificazione dell’accesso al superbonus 110% nell’interesse di cittadini, famiglie e imprese”.

A Cernobbio, Brunetta ha anche ricordato che la Pa al momento sta facendo entrare decine di migliaia di nuove leve e che sarebbe assurdo farle lavorare da casa anche per ovvi motivi di preparazione alle nuove responsabilità.

Tuttavia, nei ragionamenti del titolare del dicastero di Palazzo Vidoni ci sono anche alcuni conti che non tornano. Ma siamo sicuri che le pubbliche amministrazioni con il personale in lavoro da remoto siano meno efficienti di prima? E poi la pandemia non è per nulla terminata e con essa le necessità del distanziamento più volte proclamate dal governo di cui fa parte lo stesso Brunetta: dove sono gli investimenti in infrastrutture e trasporto pubblico locale per consentire lo spostamento quotidiano di tutte queste persone?

Ma a prescindere dal virus, Brunetta si è posto il problema di porre contenere l’inquinamento prodotto dalla necessità di spostare centinaia di migliaia di persone ogni 24 ore da un capo all’altro delle città? E la retorica sul cambiamento climatico che fine ha fatto? Uno studio Enea dello scorso anno su 29 amministrazioni che avevano messo in atto il lavoro agile già prima delll’ avvento del Coronavirus ne aveva quantificato l’effetto positivo in “46 milioni di km evitati, pari a un risparmio di 4 milioni di euro di mancato acquisto di carburante”.

Ci sono quindi molte buone ragioni economiche e ambientali per non ridimensionare lo smart working o comunque se lo si ritenga necessario per dotarsi di strumenti di accompagnamento. Apparentemente Brunetta ha invece scelto il ritorno al passato, come se l’orologio della storia potesse tornare semplicemente al 2019.

I sostenitori di Brunetta: l’agro-alimentare e la piccola impresa

Non c’è da temere però che il ministro Brunetta rimanga isolato. Oltre al suo schieramento politico guardano con favore alla messa in soffitta del lavoro agile anche dei forti interessi economici. Quasi in contemporanea con le dichiarazioni dell’esponente di governo usciva anche un comunicato della Coldiretti che così recitava:

“Lo smart working riguarda 5 milioni di persone collegate all’ufficio dalla cucina, dal salotto, dallo studio o dalla camera da letto di casa e colpisce soprattutto i locali situati nelle aree delle città con forte presenza di uffici. Una situazione che, dopo gli importanti segnali di ripresa, rischia di avere un pesante impatto a cascata sull’intero sistema agroalimentare nazionale con oltre un milione di chili di vino e cibi invenduti dall’inizio della pandemia”.

È evidente che Brunetta non si muove nel vuoto pneumatico del pregiudizio ideologico, ma che coglie invece delle aspettative concrete presenti nella società. Rimane però da capire se questi interessi legittimi siano compatibili con il vantaggio della collettività.

A supportare le scelte di Brunetta viene chiamata anche un’indagine della CGIA di Mestresui tempi di erogazione dei servizi della Pa in aumento a discapito di cittadini e imprese. La ricerca dell’organizzazione di categoria di artigiani e piccole imprese del nord-est viene esplicitamente citata e linkata sul sito del Dipartimento della Funzione Pubblica.

Però, se si ha la pazienza di leggerla l’indagine in questione, si avrà la sorpresa di scoprire che al di là delle legittime opinioni della CGIA (e di Brunetta) si ha ben poco, dato che per esplicita ammissione dei suoi promotori i risultati sono ricavati da un’elaborazione di dati Istat rilevati tra il 1999 e il 2019, ultimo anno prima della pandemia e dell’esperimento dello smart working di massa. Come si può dedurre da ciò che lo smart working aumenta l’inefficienza della pubblica amministrazione?

Ci si basa su un “sentiment” storico di ostilità delle imprese private (anche giustificato) nei confronti della PA. Ma si è pensato che negli ultimi 12 mesi gli uffici pubblici sono stati letteralmente scaraventati nel lavoro a distanza senza alcuna preparazione e che spesso i dipendenti hanno dovuto lavorare con i propri pc perché l’amministrazione non aveva da fornirgliene?

L’impressione che la scelta di ridimensionare lo smart working sia dettata da ragioni che non sono solo tecniche, ma anche politiche e sindacali, si fa forte. D’altra parte, Brunetta ha fatto esplicito riferimento all’intenzione di inserire il tema del lavoro agile e della sua produttività nel quadro dei rinnovi contrattuali. C’è chi ci vede il rischio di trasformare il lavoro a distanza in un nuovo “cottimo”. Staremo a vedere: di sicuro questa partita è tutt’altro che terminata.

Stefano Paterna

Fuori dal Silenzio

SatiQweb

dott. berardi domenico specialista in oculistica pubblicità

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