L’8 e il 9 giugno 2025 gli italiani saranno chiamati alle urne per esprimersi su alcuni quesiti referendari che, nelle intenzioni di chi li ha promossi, dovrebbero riformare il tessuto sociale del Paese. Ma sotto il velo di parole come “diritti”, “uguaglianza” e “inclusione” si cela l’ennesimo tentativo di smantellare, pezzo dopo pezzo, l’identità della nostra nazione, il suo legame con il lavoro vero, con la famiglia, con la libertà concreta. E stavolta il prezzo da pagare è altissimo.
La retorica dominante, quella che da decenni spinge per uno Stato paternalista e invasivo, ci ripropone una visione del lavoro come diritto garantito a prescindere da ogni merito, responsabilità o impegno. Un’idea tossica, cresciuta all’ombra della burocrazia e dell’assistenzialismo. Ma il lavoro non è un diritto astratto da distribuire per decreto. È una vocazione, un dovere verso la propria famiglia, un impegno concreto che afferma la dignità dell’uomo proprio perché radicato nella libertà personale e nella responsabilità sociale.
Il lavoro non può essere separato dalla famiglia, che è la prima comunità produttiva, educativa e solidale. Chi lo fa, e sono in molti, soprattutto tra i promotori di questo referendum, lo fa con la logica dell’individuo isolato, da proteggere a ogni costo, anche contro la realtà. Si parla di “lavoro per tutti” come se bastasse scriverlo in una legge per renderlo vero. Si dimentica che senza famiglia, senza radici, senza libertà economica, nessun lavoro può durare o costruire futuro.
Ma il punto più grave e, diciamolo con chiarezza, intollerabile di questo referendum è il quesito che punta a concedere la cittadinanza agli stranieri dopo appena 5 anni di residenza, spalancando così le porte a una regolarizzazione di massa, di fatto anche per chi è arrivato illegalmente nel nostro Paese.
Non è solo una provocazione giuridica. È un colpo diretto all’identità nazionale, un attacco deliberato a quell’idea di cittadinanza che dovrebbe essere conquista consapevole, non regalo elettorale. Il messaggio è chiaro: tu violi le leggi, entri clandestinamente, e in cinque anni lo Stato ti premia con la cittadinanza.
Nel frattempo, l’italiano che lotta ogni giorno per arrivare a fine mese, che ha visto erodere la sua libertà di parola, di movimento, perfino quella di lavorare, viene ignorato, messo da parte, accusato di “egoismo” se osa protestare.
E qui è doveroso dirlo senza mezzi termini: l’erosione delle libertà costituzionali non è iniziata oggi. È iniziata con quella che molti, con crescente lucidità, chiamano “pandemenza”, il laboratorio sociale perfetto in cui si è sperimentato fino a che punto si poteva spingere il controllo.
Tutto sotto lo sguardo complice di coloro che oggi, con la stessa sicumera morale, pretendono di ridisegnare il concetto di cittadinanza, come se l’Italia fosse una terra di nessuno da redistribuire per decreto. Gli stessi che ora ci chiedono di accettare che il nostro passaporto valga quanto una dichiarazione d’intenti firmata da chiunque arrivi e si fermi cinque anni.
Siamo davanti a un paradosso grottesco: dopo anni in cui ci hanno chiesto di rinunciare a tutto in nome dell’emergenza, ora ci spingono alle urne per decidere se dare la cittadinanza a chi ha violato le leggi.
Si scoprono paladini dei diritti universali, ma non dei nostri. Non dei cittadini italiani. E ora vorrebbero convincerci che la priorità è regolarizzare chi ha varcato i confini senza permesso?
Il referendum di giugno non è una semplice consultazione. È un atto politico fortemente ideologico, camuffato da buonismo. E chi oggi invita al voto per “includere” gli altri, lo fa calpestando i diritti negati agli italiani, quegli stessi diritti per cui nessuno è sceso in piazza negli ultimi cinque anni: libertà personale, autodeterminazione, proprietà privata, centralità della famiglia.
Questo referendum non è neutrale. È una trappola culturale, ed è doveroso denunciarlo.
Se non reagiamo ora, se non chiamiamo le cose con il loro nome, ci ritroveremo con un lavoro svuotato di senso, una cittadinanza svenduta, e una libertà che è già da tempo sotto attacco. Perché non c’è nulla di più falso di un diritto imposto dall’alto, quando manca la libertà vera per viverlo.
L’8 e il 9 giugno non votiamo per “includere”. Votiamo per non sparire.
Andrea Caldart