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La montagna ridotta a sistema: il fallimento del Libro Bianco tra retorica e tecnocrazia 

Il Libro Bianco sulla Montagna, commissionato dal Dipartimento Affari regionali ed autonomie al prestigioso Polo Unimont dell’Università degli Studi di Milano, pur ambendo a ricostruire una narrazione istituzionale sulle terre alte italiane, rimane prigioniero di una retorica funzionalista e sistemica che, pur colma di buone intenzioni, non riesce a superare la soglia del programmatico, né a elaborare una fondazione ontologica, economica e giuridico-istituzionale adeguata alla specificità della montagna. In esso si individua una volontà di restituire centralità a un territorio troppo spesso concepito in chiave residuale o assistenziale; tuttavia, la montagna viene trattata come semplice oggetto di policy piuttosto che come soggetto politico, giuridico e antropologico autonomo. Questo deficit di riconoscimento si traduce in un impianto che, anziché rovesciare le categorie della marginalità, le perpetua in forma aggiornata e tecnocratica.Sul piano filosofico, il documento si mostra incapace di tematizzare il significato dell’abitare montano. L’abitante delle terre alte non è mai assunto nella sua pienezza esistenziale, ma ridotto a recettore di servizi, portatore di bisogni, agente da incentivare o trattenere. Manca, infatti, ogni riferimento a un’antropologia della montagna, a una fenomenologia dell’abitare che comprenda la dimensione storica, sacrale, simbolica del vivere in quota. La montagna è interpretata in chiave strumentale, come territorio da gestire, ottimizzare, innovare, senza interrogarsi sul suo “telos” proprio, sulla sua vocazione intrinseca e sulla relazione costitutiva tra spazio naturale e ordine umano. L’inversione epistemica, che consisterebbe nel guardare al centro dal punto di vista della periferia, rimane elusa. Da un punto di vista economico, il testo si attesta su un piano descrittivo-statistico, offrendo un’interessante ma incompiuta mappatura delle tendenze in atto: calo demografico (-5% tra 2012 e 2022), contrazione delle imprese (-3,3%), invecchiamento della popolazione, digital divide e criticità infrastrutturali. Tuttavia, l’elaborazione resta priva di un modello economico capace di internalizzare i beni comuni prodotti dalla montagna: regolazione del ciclo idrico, conservazione della biodiversità, stabilità idrogeologica, conservazione dei paesaggi, presidio territoriale. Non si propone alcun meccanismo di redistribuzione compensativa (es. fiscalità ecologica di riequilibrio), né si tematizza il nodo essenziale del valore delle esternalità positive prodotte dalla montagna per l’intera collettività nazionale. La montagna continua così a essere economicamente letta secondo una logica centro-periferia e non come epicentro funzionale di una sostenibilità intergenerazionale e interterritoriale. Inoltre, la proposta di sostegno all’imprenditoria locale resta vaga e priva di strumenti di tipo mutualistico, cooperativistico, endogeno. Il riferimento all’innovazione resta ancorato a un paradigma tecnologico, senza alcuna riflessione sul rapporto tra saperi locali, tradizione e sviluppo sostenibile. Giuridicamente, la debolezza del testo è ancora più marcata. La denuncia della vetustà della classificazione montana (la legge ordinaria dello Stato n. 991/1952) è fondata, ma le proposte di superamento si limitano all’istituzione di un osservatorio, a strumenti di governance multilivello e a inviti alla cooperazione istituzionale. Nessuna riflessione viene dedicata all’ipotesi di introdurre una clausola costituzionale di specificità montana, né alla possibilità di un’autonomia funzionalmente differenziata per i territori montani, sul modello di quanto riconosciuto ad altri enti sub-statali. La montagna, in definitiva, non è riconosciuta come luogo di produzione normativa, bensì solo come ambito passivo di attuazione di politiche decise altrove. L’invocazione di una “governance integrata” si risolve in una formula retorica priva di forza cogente. Non vi è alcuna indicazione su come coordinare le competenze legislative tra Stato, Regioni e autonomie locali, né su come garantire una rappresentanza istituzionale strutturale e stabile delle comunità montane nei luoghi decisionali nazionali. A livello politico, infine, il Libro Bianco appare affetto da una forma di tecnopolitica consensuale che rifugge il conflitto e l’assunzione di responsabilità normative. L’insistenza sulla “strategia nazionale per la montagna” resta ancorata a una visione top-down, nella quale il centro definisce obiettivi e indicatori, lasciando alla periferia il ruolo di destinatario di politiche a bassa intensità normativa. La montagna, in tal modo, non viene riconosciuta come “soggetto costituente”, capace di proporre una propria visione del bene comune e del rapporto tra natura e cultura, ma resta nell’alveo del “territorio da recuperare”. Manca, in definitiva, una vera politica della montagna, intesa come progettualità autonoma, dotata di strumenti normativi, fiscali, culturali e simbolici. Senza questo passaggio, ogni narrazione di centralità resta sterile. In conclusione, il Libro Bianco sulla Montagna costituisce un utile ed autorevolissimo strumento ricognitivo e una prima piattaforma di intenti, ma resta intrappolato in una logica gestionalista e tecnocratica che non coglie la portata ontologica, giuridica ed economica della questione montana. La montagna non chiede misure settoriali o bonus a pioggia: esige riconoscimento ontologico, modelli economici integrati e redistributivi, istituzioni giuridiche differenziate. Senza una trasformazione in senso costituzionale, filosofico e politico del paradigma vigente, il rischio è che il rilancio della montagna si riduca a una serie di enunciazioni prive di forza performativa. Occorre ripensare la montagna non per essa, bensì a partire da essa: come soglia antropologica, come spazio di libertà e custodia, come luogo originario da cui rifondare le categorie stesse della cittadinanza, dell’economia e del diritto.

Prof. Daniele Trabucco – Costituzionalista

In collaborazione con: www.gazzettadellemilia.it

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