Donald Trump, con la sua inconfondibile audacia, ha assemblato una squadra di governo che sembra fatta apposta per suscitare sorprese e dividere l’opinione pubblica.
Al cuore del suo nuovo esecutivo ci sono personaggi di spicco con posizioni spesso antitetiche e passati illustri, ma anche controversi, che si ritrovano ora a collaborare sotto la sua guida. Quello che emerge è un governo composto da “falchi” conservatori e “colombe” inaspettate, un mix di potenze destinate a bilanciarsi o a scontrarsi, come se il vero obiettivo fosse proprio la tensione interna.
In un gesto inusuale per il suo stile tipicamente bellicoso, Trump ha scelto come capo dei servizi d’intelligence l’ex deputata Tulsi Gabbard, nota per le sue posizioni contrarie alle guerre americane in Iraq, Afghanistan e Siria. Questa nomina, per molti sorprendente, è in apparente contrasto con le altre scelte strategiche di Trump, che ha deciso di rafforzare il governo con esponenti dall’approccio aggressivo, favorevoli a politiche di sicurezza nazionale più incisive e interventiste.
Eppure, la decisione di affidare le redini dell’intelligence a Gabbard, figura dichiaratamente pacifista e nemica delle “guerre infinite”, potrebbe rappresentare un piano accurato: Trump ha creato un’alleanza complessa, nella quale il pragmatismo di Gabbard agisce come un freno agli entusiasmi più guerrafondai dei progressisti DEM visti in questi ultimi quattro anni.
Che anche in America siano finiti i soldi per Kiev e ora tocca pensarci all’Europa, con una Giorgia Meloni che si è quasi trasformata in una Nikki Haley de noantri, per il suo zelante sostegno alla guerra in Ucraina?
Passando al Dipartimento per l’Efficienza Governativa, una sorta di “presidenza del consiglio” potenziata per coordinare le politiche di tutto l’esecutivo, Trump ha costruito una coppia ancora più controversa, scegliendo Elon Musk e Vivek Ramaswamy.
Musk, imprenditore e visionario, ha fatto della contraddizione una seconda natura, esaltando l’innovazione e criticando la lentezza burocratica del governo, ma con frequenti incursioni in territori difficili e talvolta incoerenti, come l’uso dei social media per animare il dibattito pubblico e lo sviluppo di progetti ambiziosi che vanno dallo spazio alla neurotecnologia.
Al suo fianco, Vivek Ramaswamy, noto per il suo recente accordo con Pfizer, porta l’esperienza nel settore farmaceutico, ma soprattutto la capacità di manovrare in un ambiente regolamentato e complesso, dimostrando grande pragmatismo nei suoi recenti successi imprenditoriali. La combinazione di Musk e Ramaswamy rappresenta una delle scelte più intriganti: è difficile immaginare che due figure così forti possano condividere visioni convergenti, ma è proprio su questa dicotomia che sembra fare leva Trump.
Sul fronte della sanità, l’esecutivo assume un profilo ancora più conflittuale: alla guida del Ministero della Salute, Trump ha scelto Robert F. Kennedy Jr., uno dei più aspri oppositori di Big Pharma e noto per le sue posizioni correttamente critiche riguardo ai vaccini e alle grandi aziende farmaceutiche.
Kennedy, che ha fatto della sua crociata contro l’industria farmaceutica una missione personale, appare come la “Nemesi” ideale per il nuovo establishment della sanità e rappresenta una scelta particolarmente radicale, specialmente considerando la presenza di Ramaswamy, che ha costruito il suo impero con il supporto di alleanze farmaceutiche.
La loro collaborazione potrebbe rivelarsi difficoltosa, ma potrebbe anche, in maniera inaspettata e c’è da augurarselo, dare origine a una sintesi in grado di risolvere i contrasti tra interessi pubblici e privati.
Sembra quasi che Trump, con queste nomine, voglia spingere il suo governo al limite, costringendo i membri dell’esecutivo a scontrarsi sui temi caldi in un equilibrio che richiederà interventi continui e misure correttive.
Il meccanismo è chiaro: i membri del governo, sebbene scelti per la loro competenza e fedeltà, non sono pensati per seguire una singola linea, ma piuttosto per costituire un sistema di pesi e contrappesi interni che tenga l’esecutivo in costante movimento.
Ma, con il suo solito pragmatismo, Trump ha previsto un fattore di stabilità: l’ultima parola sarà la sua.
In un sistema che sembra fatto per generare caos controllato, sarà lui stesso a rivestire il ruolo di arbitro supremo.
Questo divide et impera moderno è forse il tratto distintivo del nuovo corso trumpiano, in cui le tensioni ideologiche e operative si scontrano e si compensano, evitando una paralisi completa grazie a un leader deciso, sempre pronto a mettere ordine dove e quando necessario.
Andrea Caldart