Il vigente Codex iuris canonici del 1983, promulgato dal Papa san Giovanni Paolo II, Vicario di Cristo in terra dal 1978 al 2005, definisce, nel canone 751, lo scisma (termine che deriva dalla lingua greca antica, da “σχίσμα”, che significa divisione, frattura) come l’ultimo delitto “contra fidem” e consiste nel rifiuto della sottomissione al Romano Pontefice o della comunione con i membri della Chiesa a lui soggetti.
In altri termini, si nega il primato del Papa o si mettono in discussione aspetti che toccano in modo diretto l’unità della Chiesa cattolica.
A differenza dei delitti di eresia e di apostasia, lo scisma non è determinato direttamente dalla negazione delle verità di fede. A questo si aggiunga che la sola disobbedienza al Romano Pontefice, che non nega il suo primato o non riguarda cause direttamente legate all’unità della Chiesa, non perfeziona il delitto di cui in trattazione.
Sono due le condizioni richieste: 1) l’atto interiore del singolo che lo porta a condividere in modo libero e cosciente (ossia consapevolmente) il cuore dello scisma che assume il sopravvento sull’obbedienza al Papa; 2) l’esteriorizzazione della scelta, partecipando esclusivamente alle funzioni scismatiche con contestuale non partecipazione a quelle della Chiesa cattolica.
Ovviamente si tratta di un delitto che può essere commesso sia da chierici, sia da fedeli laici: entrambi incorrono, a seguito del perfezionamento del delitto, nella pena canonica della scomunica “latae sententiae” secondo il canone 1364, cioè senza che debba essere dichiarata ma per il solo fatto di aver posto in essere il delitto, cui si aggiungono, ma per il solo chierico, pene espiatorie indicate nel paragrafo 1 del canone 1336.
Che accade, invece, se fosse il Romano Pontefice regnante a cadere in eresia? Un’ipotesi che i canonisti prendono in esame.
Ne parleremo in un contributo ad hoc, ma auguriamoci e preghiamo che tutto questo non accada mai.
Prof. Daniele Trabucco – Costituzionalista
In collaborazione con: www.gazzettadellemilia.it