L’Europa non esiste. O, per meglio dire, l’Europa non è ciò che molti cittadini pensano. Al di là delle illusioni istituzionali, delle bandiere blu con le stelle e degli inni condivisi, l’Unione Europea, dal punto di vista del diritto costituzionale, resta un insieme di trattati tra Stati. Non è una federazione, non è uno Stato, e soprattutto non è una democrazia sovranazionale. Eppure, agisce sempre più come se lo fosse. E in questa finzione giuridica si cela una delle più gravi minacce alla libertà politica che il continente abbia visto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
In questi mesi si fanno sempre più insistenti le voci, ed anche i provvedimenti, che puntano a escludere certi partiti o movimenti politici ritenuti “ostili” ai valori fondanti dell’UE. Ma chi decide quali siano questi valori? E soprattutto, chi ha conferito a Bruxelles il diritto di definire il perimetro della legittimità politica? Ci troviamo di fronte a un inquietante paradosso: un’Unione nata per difendere la democrazia che oggi sembra sempre più incline a limitarla, in nome di una presunta superiorità morale e di una tecnocrazia impermeabile al dissenso.
La cronaca recente offre esempi allarmanti. In Germania, il partito di opposizione AfD (Alternative für Deutschland) è finito nel mirino dei servizi segreti interni ed è ora minacciato da una possibile messa al bando, con l’accusa di essere “pericoloso per l’ordine democratico”. Che piaccia o meno la loro retorica, qui si tratta di un partito legalmente costituito e democraticamente eletto da milioni di cittadini tedeschi. Cosa significa bandire un partito che rappresenta una parte reale e crescente, dell’elettorato? È ancora democrazia, questa?
Nel contempo, in Romania, l’economista e analista politico Șerban Georgescu è stato recentemente condannato per “discorso ostile” dopo aver espresso critiche al funzionamento delle istituzioni europee e del governo nazionale. Una condanna che ha avuto l’aria di un ammonimento pubblico: “achtung” a ciò che dite, “achtung” a come lo dite. Il dissenso sta diventando non solo inaccettabile, ma persino punibile.
Non è esagerato parlare di una nuova forma di autoritarismo continentale. Un euroconformismo coercitivo, potremmo chiamarlo così: una dottrina non scritta che impone l’omogeneità ideologica, sotto il manto della “tutela dei diritti” e della “lotta alla disinformazione”. Ma chi dissente, anche legittimamente, anche democraticamente, rischia la censura, l’isolamento, persino l’interdizione politica. Tutto ciò nel silenzio assordante di molti media, e con la complicità passiva di istituzioni che, ironicamente, dovrebbero difendere il pluralismo.
La somiglianza con i meccanismi illiberali del secolo scorso non può essere ignorata. Non si tratta di un nazismo in senso storico, sarebbe una semplificazione oltraggiosa, ma di qualcosa di più subdolo e moderno: l’euroautoritarismo sistemico. Una struttura di potere che non ha bisogno della forza per imporsi, perché usa la manipolazione del diritto per escludere, marginalizzare e, infine, cancellare il dissenso.
Se questa deriva non verrà fermata, l’Europa rischia di diventare il laboratorio di un nuovo tipo di regime: senza stivali, senza manganelli, ma con algoritmi, regolamenti e “valori comuni” definiti in modo unilaterale da élites non elette. Una democrazia senza popolo, in cui la sovranità non appartiene più ai cittadini, ma ai commissari.
È tempo di svegliarsi. Di tornare a chiedersi cosa significhi davvero essere democratici. E soprattutto, chi ha il diritto di decidere chi può partecipare al gioco democratico. Perché se la risposta diventa: “solo chi è d’accordo con noi”, allora l’Europa ha già smesso di essere libera.
Andrea Caldart