Mentre i governi si affrettano a vestire la nuova frontiera del controllo con abiti eleganti chiamati “innovazione” e “sicurezza digitale”, qualcosa di ben più oscuro si prepara a spegnere le ultime luci della libertà d’informazione e di espressione: l’ID digitale obbligatorio.
Dietro la retorica della “modernizzazione” e della “lotta alla disinformazione” si cela un meccanismo spietato e definitivo: rendere ogni parola scritta, ogni contenuto pubblicato, un atto tracciabile, identificabile, schedabile. Non si tratta di un’ipotesi distopica, ma di una realtà concreta che bussa alle porte dei Parlamenti e delle piattaforme sociali, pronta a distruggere l’anonimato come lo conosciamo.
L’introduzione di un’identità digitale obbligatoria, legata, di fatto, alla persona fisica in modo ineludibile, trasforma internet nel più grande registro governativo della storia. Nessuna differenza tra un commento su di un social e una dichiarazione in tribunale. Nessuna protezione per chi denuncia, per chi racconta, per chi indaga.
Il giornalismo d’inchiesta, quello vero, fatto di voci che sussurrano nell’ombra, di fonti che rischiano tutto per far emergere la verità, sarebbe il primo a cadere. Chi parlerebbe più, sapendo di essere tracciato, registrato, schedato? Chi oserebbe pubblicare documenti scottanti, scomode verità, abusi di potere, se ogni bit digitato fosse potenzialmente punibile?
Eppure, la nostra Costituzione, come molte altre nel mondo libero, tutela in modo esplicito il diritto fondamentale alla libertà di espressione. L’articolo 21 della Costituzione italiana afferma che: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.” Non ci sono asterischi. Non ci sono note a piè pagina che subordinano questo diritto all’approvazione di un’autorità centrale o all’obbligo di identificazione. L’anonimato, la possibilità di esprimersi senza timore di ritorsioni, è una condizione imprescindibile per l’esercizio pieno di questa libertà costituzionale.
Il pericolo non è astratto. È sistemico. È istituzionale. Una volta introdotto l’ID digitale come prerequisito per partecipare alla vita online, non esisterà più margine per la disobbedienza civile, per la critica anonima, per la verità scomoda. Ogni post sarà una firma. Ogni like, un atto notarile. Ogni denuncia, un autogol giudiziario.
La sicurezza? Una foglia di fico. Perché in nome della sicurezza, stiamo sacrificando la libertà. E quando la libertà di espressione si lega indissolubilmente all’identità, muore il dissenso. Muore il coraggio. Muore il giornalismo.
Se permettiamo che questo accada, non solo distruggeremo l’ultimo spazio di autonomia informativa rimasto, ma tradiremo chi ogni giorno, in ogni parte del mondo, chi mette a rischio la propria vita per raccontare quello che il potere non vuole farci sapere.
Questa non è innovazione. È censura di nuova generazione. E il suo volto, stavolta, porta il sorriso freddo e algoritmico di un’identità digitale obbligatoria.
Nel giugno 2021, la Commissione Europea ha presentato il regolamento eIDAS 2.0, che prevede l’introduzione dell’European Digital Identity Wallet. Questo portafoglio digitale, apparentemente innocuo, sarà lo strumento per accedere a servizi pubblici e privati – ma anche, potenzialmente, per pubblicare, commentare, accedere ai social network. E nel Digital Services Act (DSA), approvato nel 2022, si legge con chiarezza la volontà di responsabilizzare le piattaforme, ma anche di ottenere “cooperazione piena” nell’identificazione e nella moderazione dei contenuti “illeciti” o “dannosi”.
Ma ciò che è ancora più inquietante è l’atteggiamento passivo, se non complice, del nostro governo, sempre pronto a chinarsi davanti ai diktat dell’Unione Europea come un allievo troppo diligente che teme più il rimprovero di Bruxelles che la voce del proprio popolo. Invece di difendere la sovranità costituzionale e il diritto sacrosanto dei cittadini alla libertà di parola, le nostre istituzioni sembrano preferire la strada più comoda: quella del recepimento silenzioso, dell’adeguamento tecnico, della sottomissione algoritmica.
I nostri rappresentanti, anziché alzare la voce contro l’imposizione di una società della sorveglianza camuffata da progresso, sembrano quasi affascinati dal miraggio tecnocratico dell’Europa digitale. Inseguono dashboard, intelligenze artificiali, identità biometriche e architetture normative pensate più per disciplinare un popolo di sorvegliati che per emancipare. Ma quando la politica smette di interrogarsi sul senso delle scelte e si limita ad eseguire direttive, si trasforma in mera amministrazione. E il politico, in burocrate, in questo caso un burocrate succursale di Bruxelles.
In questo scenario, l’Italia non guida. Subisce. Non oppone resistenza. Si adegua. Come se i principi sanciti nella Costituzione siano ormai fastidiosi ostacoli alla grande macchina dell’efficienza europea. Come se la libertà sia diventata una variabile negoziabile. Come se l’anonimato, pilastro di ogni dissenso legittimo, potesse essere cancellato con una firma digitale.
Così ci troviamo, ancora una volta, davanti a un bivio storico. Ma mentre la strada della resistenza democratica richiede coraggio, pensiero critico e responsabilità, quella dell’obbedienza cieca, che il nostro governo dell’oppofinzione in stile Meloni sembra aver imboccato senza esitazioni, ci porta dritti verso un futuro in cui non saremo più cittadini liberi, ma utenti certificati.
Questa è una versione sterilizzata, disciplinata, asettica di ciò che l’Europa non dovrebbe mai diventare: un continente che controlla invece di liberare, che sorveglia invece di ascoltare, che uniforma invece di proteggere il dissenso.
Se il giornalismo deve morire, almeno sappiamo chi lo ha ucciso: un manipolo di elitari globalisti che hanno deciso di rendere schiava e sottomessa l’umanità, e una politica troppo pavida per dire no.
Andrea Caldart