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Come si comunica l’Arte?

Si può “comunicare” l’Arte? O non sarebbe meglio parlare di “rappresentare” o “esporre” visto che l’Arte non può essere “comunicata” perché sa parlare da sola e direttamente al cuore, al cervello e all’anima?

Le decine di studi che si impegnano a dimostrare le migliori metodologie per presentare l’Arte non si mostrano consapevoli che la sua forza comunicazionale autonoma non può essere imbrigliata o decrittata perché si spiega da sé, andando diritto al cuore. 

E qualunque intervento esterno “chiarificatore” o pedissequamente didascalico diventa una sovrastruttura inutile e fuorviante che allontana piuttosto che avvicinare.

La bellezza, nella sua essenza più profonda, è già un linguaggio universale. 

E sbaglia chi pensi che l’arte va letta con codici esclusivi compresi da pochi e men che meno dai giovani. La partecipazione popolare ai grandi musei ci dimostra che l’interesse c’è ed è in crescita anche sul target più giovane e semmai quello che occorre rinforzare è il percorso formativo scolastico fin da giovanissimi. Non occorre raccontare l’Arte perché il bello parla da sé con l’emozione e l’esperienza che ti offre.

Sicuramente quello che sarebbe invece importante raccontare è la storia che c’è intorno a un quadro o una scultura. Le storie affascinanti intrecciate con la vita degli artisti e di chi le ha commissionate e dei tempi in cui sono state realizzate magari con la forza espressiva delle serie televisive che catturano oggi milioni di spettatori. Federico Zevi si rammaricava che “non ci si chiede mai di storicizzare il testo creativo”.

E invece storicizzare e geolocalizzare l’opera d’arte è sicuramente il miglior sistema per capirla meglio.

A chi poi sostiene che in questa operazione collaterale di definizione del contesto occorra anche aggiungere un linguaggio più contemporaneo per traghettare l’arte nel futuro obietterei che i rischi di saturazione sono evidenti e da evitare e che l’approccio alla conoscenza attivo si ottiene altrimenti. Mediare l’Arte significa troppo spesso farne altro, appesantirla con elementi impropri. 

A tale proposito le mostre cosiddette “immersive” o “site specifiche” si propongono di reinventare la fruizione artistica e si risolvono in esperimenti ludici di breve momento e mero intrattenimento.

Non dobbiamo attrarre i nuovi pubblici giovani con le tecniche digitali e dei videogiochi. I giovani vanno accompagnati alla visione chiedendo solo di lasciar liberi i loro cuori e le loro emozioni. 

Se ben introdotti alla preconoscenza dell’artista, dell’opera e del tempo in cui è stata realizzata rimarranno attratti interessati ed arricchiti, rimanendo nella loro crescita culturale genuina, senza interferenze devianti, sentendosi parte di un racconto.

Solo così l’arte può lasciare un segno forte e duraturo. Quando ci sentissimo coinvolti perché conosciamo la storia dell’opera o di un monumento con tutti i suoi simboli culturali possiamo stare sicuri che fenomeni come la “cancel culture” non avranno più spazio e anzi sentiremo il bisogno di proteggere il nostro patrimonio culturale e di trasmetterlo nella sua integrità al futuro.

Cristiano Carocci – Presidente Fondazione Spazi dell’Arte

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