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L’economia del bluff?

Chiunque abbia giocato a poker sa quanto possa rivelarsi importante saper bluffare: pare che l’atteggiamento si sia trasferito da tempo dal tavolo di gioco al settore dell’economia. Dinanzi ai profluvi di numeri ottimistici sulla ripresa italiana l’impressione si fa più forte che mai.

Primo indizio del bluff:

“Anche l’Ocse, nel suo rapporto sull’economia italiana, ha rivisto al rialzo le stime sulla crescita del Pil dal 4,5% al 5,9% nel 2021”, ha dichiarato qualche settimana fa, al solito entusiasta, il ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta che ha poi proseguito: “L’istituto di Parigi si allinea, quindi, agli altri previsori nel certificare l’ottimo momento dell’economia del nostro Paese. Le riforme e gli investimenti che stiamo mettendo in atto, grazie anche alla spinta del Next Generation Eu, permetteranno di rendere strutturale nei prossimi anni questi livelli di crescita. Facendo, finalmente, uscire l’Italia dalle sabbie mobili di una crescita da ‘zero virgola”.

Ora, non per contraddire il ministro e nemmeno il coro del mainstream che ovviamente ne ha ripreso le esternazioni, ma una riflessione sulla ripresa non può che partire dai dati dai quali ci si riprende, ovvero da quelli dell’annus horribilis 2020. E sì perché se al dato dell’Ocse si affianca quello dell’Istat, relativo alla diminuzione del Pil avvenuta lo scorso anno, l’effetto è tutt’altro: la statistica ufficiale dice infatti che in quei 12 mesi l’economia nazionale ha subito una contrazione del Prodotto interno lordo pari all’8,9%.

Ora gli economisti si interrogano appunto sulla natura della ripresa: sarà strutturale o solo un rimbalzo? Data la dimensione della “distruzione creativa”, come la chiamava l’economista austriaco Joseph Schumpeter, avvenuta lo scorso anno, la risposta sembra piuttosto intuitiva. Anche perché ci dice l’Istat a riguardo dei dati economici del secondo trimestre dell’anno in corso che la crescita del 17,3% sullo stesso periodo del 2020 è sostenuta soprattutto dalla domanda interna e, guardando dal lato dell’offerta, dai servizi: e a tal proposito vengono subito in mente le chiusure per lockdown protratte sino all’inizio di maggio 2020.

I disoccupati? Per la Fondazione Di Vittorio sono molti più di quel che sembra

Secondo indizio: il caso ha voluto che proprio il 17 settembre la Fondazione Di Vittorio abbia diffuso i dati di una ricerca sulla reale consistenza della disoccupazione in Italia. In pratica, l’istituto vicino alla Cgil si è ripromesso di spiegare come mai il nostro tasso di occupazione sia molto più basso della media degli altri paesi dell’Unione europea (nella fascia d’età 20-64 anni 72,5% contro 62,6), mentre il tasso di disoccupazione invece non segue un andamento corrispettivo d’innalzamento (7,1 per l’Europa a 27 e “solo” 9,2% per l’Italia). I dati sono del 2020.

Il caso è curioso assai perché un paese con un tasso di disoccupazione simile al nostro come la Spagna che ha un’occupazione al 65,7% nella fascia dai 20 ai 64 anni, ha anche un corrispettivo tasso di disoccupazione pari al 15,5%. Secondo la Di Vittorio l’incongruenza sta tutta “in una ormai storica anomalia del mercato del lavoro italiano che ha il più alto tasso di inattività di tutta l’Ue”.

Sulla base di una stima della “Disoccupazione sostanziale” e del relativo indice, la Di Vittorio ha in pratica sommato ai 2,3 milioni di disoccupati ufficiali dell’Istat, l’1,6 milioni di inattivi (scoraggiati 743mila, 223mila impegnati in attività di cura, 596mila sospesi ovvero in attesa di ricevere un’offerta di lavoro): si arriva così a 3,9 milioni di aspiranti a un lavoro nel 2020 che porta a un più realistico tasso di disoccupazione pari al 14,5%.

Ovviamente i dati sono dell’anno scorso e pertanto influenzati dall’effetto della pandemia, ma danno comunque un’idea del come sia possibile che a tutt’oggi non venga colta l’effettiva dimensione di un fenomeno come la disoccupazione.

Il salvagente del Pnrr

Terzo indizio che, come ben si sa, per Agatha Cristhie fa una prova.

Si dirà: per fortuna ora abbiamo il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) questo strumento da oltre 220 miliardi di euro (di cui però oltre 120 miliardi sono prestiti che dovranno essere restituiti) sarà certamente possibile creare molta più occupazione. Bè, anche in questo caso l’invito alla prudenza è d’uopo.

Prendiamo il caso del settore automobilistico che nel luglio del 2020 contava ancora nonostante la crisi 274mila addetti pari a oltre il 7% degli occupati nel comparto manifatturiero. Ora per il futuro prossimo dell’automotive il Pnrr ha scelto nel rispetto della “transizione ecologica” di puntare sull’auto elettrica. Basti pensare che solo per lo sviluppo di infrastrutture di ricarica elettrica sono previsti 740 milioni di euro e sui bus elettrici c’è uno stanziamento di 300 milioni di euro.

Benissimo, ci sarà di certo un impatto positivo sulle emissioni (si creerà anche un problema di gestione delle batterie e di questo si parla un po’ meno), ma quale sarà l’impatto sui livelli occupazionali?

Qui, invece, le previsioni potrebbero essere molto meno rosee di quanto auspicato dai “media ufficialisti”: c’è, per esempio, chi come l’amministratore delegato di Volkswagen Herbert Diess che prevede un 30% di lavoro in meno per costruire un veicolo elettrico rispetto a uno simile con tecnologia a combustibile.

Si può trarre una massima dagli indizi di cui sopra?

Sì, non ci si può affidare solo ai soldi del “Recovery Fund” e alla tecnologia, serve anche una politica industriale che crei più lavoro possibile, effettuando investimenti pubblici su settori ad alta intensità di lavoro, anche se a scarsa redditività (il riassetto ambientale idrogeologico per fare un esempio) e operando anche una riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario come già accaduto in altri paesi europei come la Germania.

Il problema è che il governo dei migliori non sembra proprio andare in questa direzione.

Stefano Paterna

Fuori dal Silenzio

SatiQweb

dott. berardi domenico specialista in oculistica pubblicità

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