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Home Attualità Rapporti Stato Regioni: Rivitalizzare il ruolo e le competenze dei Comuni

Rapporti Stato Regioni: Rivitalizzare il ruolo e le competenze dei Comuni

Dalla riforma del Titolo V alle acrobazie interpretative della Corte Costituzionale.

È noto a tutti che la riforma del titolo V della costituzione approvata nel 2001 ha provocato l’implosione dei rapporti Stato-regioni, determinando notevoli problemi di funzionalità del sistema.

Uno dei maggiori problemi risiede nelle materie attribuite alla competenza regionale, in quanto l’attribuzione delle nuove materie alle regioni è stata del tutto disancorata della dimensione (regionale) dell’interesse. 

Per intenderci, se nell’originario art. 117 della Costituzione alle regioni erano affidate competenze sottese ad un interesse che assumeva, espressamente o nei fatti, una dimensione regionale (come ad esempio «i lavori pubblici di interesse regionale»), nell’elencazione delle competenze regionali contenuta nel III comma dell’art. 117, così come riscritto nel 2001, alle regioni sono state attribuite competenze che si riferiscono, in maniera evidente, ad interessi dotati di una dimensione nazionale, sconfinando alle volte persino in ambiti che necessitano di regolazioni sovranazionali.

Per chiarire basti ricordare che il titolo V della Costituzione del 2001 ha attribuito alle regioni, ad esempio, «commercio con l’estero», cioè una materia in cui con tutta evidenza entra in gioco un interesse che certamente trascende quello delle singole regioni; «tutela e sicurezza del lavoro», che dovrebbe essere uniforme su tutto il territorio nazionale, inerendo alla tutela della persona umana; «ricerca scientifica e tecnologica» che dovrebbe rappresentare il fondamento della crescita economica, sociale e culturale dell’intero paese; «tutela della salute», connessa a un diritto che la stessa Costituzione all’art. 32 definisce «fondamentale»; «porti e aeroporti civili», ossia opere strategiche per il sistema paese, senza nemmeno considerare che alcune regioni, a causa delle loro dimensioni e dei loro confini, non hanno né porti né aeroporti; «grandi reti di trasporto e di navigazione», cioè di reti di trasporto che per essere appunto «grandi» necessariamente trascendono i confini di una sola regione, e che alle volte sono di interesse sovranazionale; «ordinamento della comunicazione», cioè una materia che va regolata orami su un piano che trascende gli stessi confini dello Stato, arrivando sino ad attribuire alle regioni compiti in cui l’aggettivo «nazionale» qualifica addirittura la competenza stessa, come nel caso della «produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia». 

Tutto ciò senza considerare che materie la cui stretta attinenza agli interessi strategici del paese, dai «lavori pubblici» ai «servizi pubblici», dall’«agricoltura» al «turismo», a seguito della tecnica di riparto introdotta nel 2001, sono confluite nella potestà residuale delle regioni, cui spetta tutto ciò che non è attribuito espressamente allo Stato.

Un riparto la cui irragionevolezza è evidente, perché rende, da un lato, assai complessa l’azione unitaria dello Stato, dall’altro lato, molto problematica la stessa cura di questi stessi interessi che difficilmente potranno essere adeguatamente tutelati dall’azione regionale, oggettivamente inefficace.

Come è noto, l’applicazione di questo irragionevole riparto di competenze ha attribuito un ruolo delicatissimo alla Corte Costituzionale, che si è dovuta far carico dell’esigenza di garantire la funzionalità del sistema. 

La prima fondamentale sentenza, con cui la Corte costituzionale ha iniziato il lungo processo di «riscrittura» dell’art. 117 Cost., la n. 303 del 2003, è intervenuta in materia di opere pubbliche con riferimento a una legge statale relativa alla costruzione di infrastrutture di «preminente interesse nazionale» (competenza che per la lettera del nuovo art. 117 Cost. era confluita nella potestà delle regioni). Poiché era inverosimile che lo Stato non potesse realizzare un piano di infrastrutture strategico per il paese (ma che la sua realizzazione dovesse essere subordinata all’intervento, legislativo e amministrativo, di tutte le regioni attraversate dall’infrastruttura stessa, come avrebbe imposto la lettera del nuovo titolo V), la Corte ha dovuto fare vere e proprie acrobazie interpretative per affermare che lo Stato conservasse questa possibilità, in sostanza «riscrivendo» il nuovo riparto di competenze, mettendo così in evidenza tutta l’astrattezza del criterio usato nel 2001 e i connessi gravi rischi per la funzionalità del sistema paese.

Senza contare che gli enormi poteri attribuiti alle regioni e la forza politica attribuita ai presidenti eletti direttamente dal popolo hanno determinato l’accentuarsi di quel fenomeno, da sempre studiato, del cosiddetto centralismo regionale, cioè della tendenza delle regioni ad assumere un ruolo diverso da quello che la Costituzione attribuisce loro (pianificazione e programmazione), diventando gestori delle competenze amministrative, esautorando così delle loro competenze le amministrazioni storicamente, socialmente e culturalmente vicine ai cittadini, i comuni. 

Questo fenomeno di neocentralismo regionale, esautorando i comuni, ha determinato anche la diminuzione della partecipazione dei cittadini alla via democratica delle loro comunità, perché sempre meno sono le competenze su cui i comuni hanno reale voce in capitolo. 

Una parte sottratta loro dalle regioni, un’altra dal mercato (cioè dalle leggi di privatizzazione dei servizi pubblici locali che si stanno con sempre maggior forza attuando; si pensi al decreto concorrenza che punta ad una ancora più incisiva privatizzazione in questa materia). 

Sicché tra non molto non è inverosimile immaginare che i comuni saranno esautorati anche delle più basilari competenze per soddisfare i bisogni delle comunità amministrate. 

La funzionalità del sistema, tuttavia, non può essere attribuita all’interpretazione del giudice delle leggi, ma deve fondarsi sulle solide basi di una Costituzione scritta per durare. 

È per questo motivo che si deve tornare allo spirito della Costituzione del 1948

Innanzitutto, occorre riscrivere le competenze regionali ristabilendo l’unico criterio, logico e giuridico, che ne orienta l’allocazione: le competenze che si riferiscono a un interesse di dimensione regionale vanno attribuite alle regioni; quelle che ineriscono a interessi nazionali vanno attribuite allo Stato.

Poi occorre rendere effettivo il vero ruolo che la Costituzione ha sempre inteso attribuire alle regioni, che devono essere effettivamente gli enti di programmazione e di pianificazione su scala vasta, e non enti di gestione diretta, evitando il perpetuarsi del fenomeno del centralismo regionale.

Infine, vanno rivitalizzati i comuni, che sono stati duramente colpiti dal combinato delle politiche di spending review e di privatizzazione dei servizi locali, riscoprendo il vero senso del principio autonomistico che è diretto a favorire l’ampliamento delle possibilità di partecipazione alla vita pubblica dei cittadini. Partecipazione democratica che negli ultimi tempi, anche a causa di un assetto irragionevole delle competenze, lungi dall’essere stata favorita, è risultata notevolmente compressa.

Prof. Carlo Iannello Università degli Studi «Luigi Vanvitelli» della Campania

In collaborazione con: www.gazzettadellemilia.it

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