Il velo intorno perfeziona l’ovale del viso.
Un gruppo omogeneo per ogni turno di lavoro. Un branco, una lingua. L’importante è che faccia quello che deve. Non interessa il dialogo interculturale. Ma lavorare. Fare le alzate e rimettere a letto. Igiene e socializzazione sono sullo stesso piano per modalità di erogazione del servizio e tempo dedicato. Il lavoro è routine. Le persone sono corpi da movimentare.
Proteggere il contorno del viso con il velo significa smussare gli angoli. Ma, questa donna africana ha il capo scoperto.
Ha il viso appuntito. Un triangolo con la punta rivolta verso il basso e occhiali con le ali verso l’alto. Una farfalla con le lenti applicata ad un viso buio di livore. I capelli pennellati di grigio e arruffati. Guarda le altre e i loro veli come se fosse scesa dalle scale di un aereo in arrivo da Parigi. Non ha legato con nessuna donna dalla pelle scura. Parla poco e solo con le italiane. In una lingua arrotata dalla erre moscia.
La coordinatrice della casa protetta per anziani non ha ancora capito come inquadrarla. E’ di fede cristiana e arriva da un Paese dove anche gli alberi credono in Allah.
L’appartenenza alla fede islamica è uno dei criteri per la composizione dei gruppi di lavoro. Ne ha creati due, fino ad ora, omogenei per lingua parlata e per provenienza territoriale. Il primo è un gruppo di ucraine e di russe: esonda dal tracciato delle sue aspettative in rivoli dissidenti perché sulla terra di Russia ci sono mussulmani e cristiani ortodossi, buddhisti e seguaci dello sciamanesimo: il russo è un’etichetta stretta. E’ un gruppo autonomo con un’infermiera russa che le fa rapporto in italiano e impone la disciplina nella lingua d’ordinanza. Una repubblica indipendente con potere di uccidere e promuovere.
Il gruppo delle africane lo ha messo insieme pensando a una delle lingue dei colonizzatori: il francese: Costa d’Avorio, Mali, Senegal, Guinea francese, Benin, Congo. E all’Islam. Il velo: la divisa.
Creare queste isole sociali nella grande organizzazione della struttura le è servito per ricevere candidature direttamente dalle lavoratrici e per sostituirle durante le assenze. L’azienda le ha concesso autonomia. E lei ha razionalizzato i servizi destinati alla cura delle persone. Più facile lavorare in questo modo: africane tutte insieme in un turno e russofone in quello successivo. E un gruppo misto con persone di diversa provenienza. Lei non pensa al benessere degli anziani. E nemmeno alla motivazione dei lavoratori.
Li ha disinfestati dall’umanità.
Lei pensa ai tempi e ai metodi del lavoro. All’efficienza. Agli indici di produttività. Alle fasi della lavorazione. L’ingegneria sociale applicata ai servizi.
L’ivoriana non sa dove metterla. Senza velo, la lingua francese sedata sotto la crosta sottile di un italiano usato forzatamente anche con le colleghe africane. La faccia scura, le labbra piegate verso il basso in segno di disprezzo. Sorride solo al capezzale delle persone allettate. Sempre sul punto di sferrare un pugno. Con la mano o con le parole: non fa differenza.
La coordinatrice l’ha messa in turno nel gruppo misto, con molti dubbi. Perché ha caratteristiche non codificabili. Potrebbe innescare focolai di tensione. Non vuole problemi. Deve regnare l’ordine. Poche o niente assenze dal lavoro. E soprattutto: poche parole. Il dialogo è inutile. Ma numeri. Numero di alzate, numero di pasti, numero di persone presenti in struttura. Numero di rette pagate. Equilibrato rapporto fra operatrici e numero di anziani. Azioni del lavoro svolte in un tempo definito, cronometrato. Se un anziano non vuole collaborare e non vuole alzarsi, l’operatrice glielo impone. Quando le parole non hanno effetto, la libertà finisce dove comincia la forza fisica dell’infermiera. Che è soprattutto tecnica di spostamento. Movimentazione di una massa corporea.
L’ivoriana ha la faccia segnata anche dopo il riposo notturno. Dal tempo, dai pensieri. Dai ragni della rabbia che arriva non si sa da dove.
E’ sola in Italia. E’ assente con il pensiero anche quando è presente. Lavora con precisione. Parla poco con i vecchi ma parla anche troppo, secondo la coordinatrice. E’ veloce e precisa nei movimenti, ma le sfugge un tocco lieve sulla guancia anche se ha la faccia torva.
La maschera della rabbia antica non riesce a staccarla via.
In coppia con una collega sudamericana contratta con una paziente un’alzata. Alzarti, devi alzarti dal letto. Ore otto e trenta del mattino: tardi per la colazione. Tollerano la resistenza della donna. La alziamo alla fine, dopo averle portate tutte al tavolo delle colazioni. Pensano. La schiena rigida, le ginocchia piegate e i piedi appoggiati al materasso, le braccia aperte e tese: impossibile da sollevare. La sudamericana le avvicina le ginocchia, l’ivoriana la aggancia sotto le ascelle. Africa e Sudamerica si sbirciano in un lampo di stanchezza. Contano senza chiamare i numeri a voce alta. La donna è rigida, la schiena fa resistenza alla posizione.
Gli occhi sprezzanti del potere della forza fisica contagiano d’odio.
Ha la faccia cadaverica, gli occhi disperati.
Lei aveva la faccia livida e gli occhi iniettati di sangue.
Il corpo rigido si oppone al movimento.
Un corpo contro un corpo.
L’ivoriana mantiene la posizione e trattiene in verticale la schiena della paziente.
Mille luci di una festa africana e confuse voci sovrapposte in uno spazio ristretto tracimano su lei.
Di colpo, le braccia sono inabili. La paziente rimbalza sul materasso. La sudamericana le solleva le gambe e le riallinea al corpo. Alza le sbarre del letto della paziente.
Deve occuparsi dell’ivoriana, adesso.
Rumore. Quale scegliete? Quale volete? Quale prendete? Che cosa ci date? Pentole, cibo, birra Heinenken, un bastone da passeggio, un cappello, soldi? Quanti soldi? La testa gira in un vortice senza fine.
La schiena rigida, braccia che la spingono, la sorreggono, la agganciano.
Un corpo sopra un corpo. Che viola un corpo. Il suo, dopo la festa.
Lei non voleva andarsene con quell’uomo più vecchio di lei, già padre e accompagnato con un’altra donna. Non lo ha scelto.
I conati di vomito le scuotono il corpo nella corsia della casa per anziani.
La accompagna in bagno, la collega. Le farfalle di vetro scivolano via dal volto in fiamme.
La sudamericana veglia su di lei ma tiene il corpo lontano.
Intuisce la forza della rabbia dissidente.
Non c’è stata un’unica volta per la battaglia perduta in nome della libertà. La donna è ancora la ragazza affogata nell’acque torbide di una compravendita matrimoniale.
Questa volta la società le ha destinato un ruolo: moglie di quell’uomo vecchio al quale deve dare un figlio che non arriva. Dal quale fugge, dopo essere diventata madre e avere creduto di potere vivere in modo libero. In Mali, in Algeria, in Libia. In tutti i Paesi rappresentati dal turno di lavoro delle africane. Ogni volta che vede quel gruppo, l’ivoriana vede l’oscurità del male.
Lei vorrebbe dimenticare l’Africa.
E ora piange in grembo a una sudamericana della quale conosce solo il nome.
Il silenzio immobile della coordinatrice e dell’infermiera russa, dietro di loro.
Hanno alzato la paziente, l’hanno costretta al tavolo delle colazioni. La donna tiene il capo reclinato, la bocca semi aperta, ha le braccia abbandonate.
La prima volta che un corpo le ha aggredito il corpo lei è uscita dall’albergo appiattita al muro.
Voleva sparire. Aveva paura di incontrare qualcuno. Non voleva che si vedesse. Che cosa le era accaduto. Il capo reclinato, le braccia abbandonate. La testa vuota.
La coordinatrice le ha convocate in ufficio. L’ivoriana vomita per un tratto. Uno dei vetri degli occhiali a farfalla si è increspato.
Non avete alzato la paziente.
Non sei capace di fare figli.
Ci sono regole uguali per tutti, qui. Ci sono tempi e metodi precisi.
Devi avere un figlio adesso per lui. Le donne lo devono agli uomini.
L’ivoriana ha lo sguardo vitreo. La sudamericana ascolta e non parla. La coordinatrice ordina di rispondere. L’ivoriana senza occhiali ha la vista confusa. Senza le farfalle sugli occhi capisce meno la lingua. La faccia è una maschera di disgusto. La sudamericana sa che l’ivoriana ora si trova in un altro tempo e in un altro spazio.
Le alzate, tutte, prima delle otto e trenta del mattino. Le colazioni, tutte, prima delle nove e trenta del mattino. I pazienti, tutti, seduti fino alle dodici, ora di pranzo.
Ha strappato un legno dalla porta, pieno di chiodi sporgenti. E me lo ha sbattuto in testa. Pensavo di essere libera, quando sono diventata madre. Succedeva spesso. E’ successo ancora. Le botte. La paura. Poi se ne andava.
Le donne bianche si alzano verso l’ivoriana. E’ congelata nella piena della memoria.
Non posso ritornare dalle sorelle, dalla madre. A casa dicono che una mamma muore per i suoi figli. Non mi resta che tornare dal vecchio uomo violento. Oppure andare via, vagare per l’Africa. Lontano da qui.
La sudamericana spazza via le bianche. Le è ritornata in corpo l’adrenalina della legittima difesa.
Una lettera di richiamo. Per il Sud America e per la Costa d’Avorio. Tutte e due in turno con le russe, da domani.
La sudamericana raccoglie l’ivoriana dalla sedia. La trattiene in posizione eretta. La spinge verso il corridoio, una corsia che porta al capo reclinato della paziente. Quella che voleva sprofondare nella notte senza luci. La agganciano sotto le braccia, una per parte.
Stampelle di una vita in bilico. La adagiano in un riposo dissidente, dentro un sonno senza sogni. Risorto dalla memoria inquieta della vita.
Francesca Dallatana
In collaborazione con: www.gazzettadellemilia.it