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L’immutabilità della Legge Naturale

La legge naturale è radicata nell’essenza di ciascuna persona umana e non può essere modificata né da alcuna autorità (“ab estrinseco”), né può subire cambiamento in sé stessa (“ab intrinseco”), dal momento che, soprattutto in questo secondo caso, si porrebbe essa stessa contro natura, in quanto l’uomo si troverebbe nella situazione per cui non potrebbe più conseguire il suo fine.

Essa, in altri termini, presenta la fissità e la stabilità delle essenze ove trova il suo fondamento.

Se, infatti, mutasse l’essenza dell’ente uomo, ossia ciò che lo rende quello che è e non un altro ente (ad esempio un animale o un oggetto inanimato), si dovrebbe riconoscere che l’ente può essere altro da sé, violando in questo modo l’evidenza del principio di identità. Ora, un ente altro da sè non è quell’ente, è un non essere, il quale non si può né dire, né pensare come insegnano Parmenide (515 a.C./450 a.C.) e la scuola eleatica.

Un modo di ragionare divergente avrebbe come conseguenza l’instaurarsi di un’etica della situazione, cara al progressismo di sinistra e ad un certo cattolicesimo “alla don Milani” dove, in nome di una eguaglianza omologatrice/livellatrice e di un vago principio di non discriminazione, si accoglie una concezione della natura in senso materialistico/biologico/meccanicistico o la si degrada a naturalismo.

Siamo di fronte al respingimento di qualunque “eco volontaristico” da tarda scolastica il quale riconosce il fondamento della legge naturale non nell’essenza dell’uomo, ma unicamente nella volontà di Dio che, si veda la non condivisibile lezione di Ockham (1287/1347), nella sua potenza ordinata (“de potentia ordinata”) stabilisce un certo ordine morale il quale, nella sua potenza assoluta (“de potentia absoluta”), può mutare (ad esempio stabilendo che l’omicidio non è un male).

In realtà, neppure Dio può dispensare dai precetti della legge naturale, altrimenti la sua stessa volontà risulterebbe meramente arbitraria: semmai può intervenire sull’oggetto dell’azione (le levatrici ebree mentirono per salvare dall’ira del faraone i figli maschi.

Tuttavia, la bugia celò la benevolenza ed il timore di Dio da cui derivò l’espressione bugiarda). Non è, dunque, come rileva san Tommaso d’Aquino (1225/1274), il precetto che muta, ma la qualificazione morale di un’azione determinata.

Prof. Daniele Trabucco – Costituzionalista

In collaborazione con: www.gazzettadellemilia.it

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