Con la firma del Dpcm del 23 settembre da parte del presidente del Consiglio Mario Draghi che sancisce il ritorno in presenza dei lavoratori della pubblica amministrazione, si completa la “restaurazione” voluta in prima persona da parte del ministro Renato Brunetta.
Il responsabile della Funzione pubblica, come un contemporaneo principe di Metternich, proclama il rientro negli uffici come se fosse un ritorno a una “normalità” precedente l’anomalia della pandemia, benché si sia ancora in stato d’emergenza fino almeno al prossimo 31 dicembre 2021.
E lo fa sulla base di alcune misure che dovrebbero consentire a suo giudizio un rientro sicuro e ordinato: l’obbligo di green pass per tutti i dipendenti pubblici; le linee guida dello stesso ministro per la Pubblica amministrazione e del ministro della Salute Roberto Speranza in materia di dispositivi per il controllo della Certificazione verde dei dipendenti e procedure per la gestione del personale, ancora da emanare.
Lo fa soprattutto con la vista all’attuazione del Pnrr, come ci è già capitato di scrivere, ritenendo quindi implicitamente inadatta un’alta percentuale di smart working nella pubblica amministrazione per la gestione, controllo, rendicontazione di progetti da milioni di euro finanziati nel quadro del Recovery Plan.
Dunque, niente di meglio del ritorno alla Legge 81 del 2017, cosiddetta Legge Madia, quando il lavoro agile aveva percentuali minimali nel comparto pubblico, con gli accordi individuali tra dipendente e dirigente per l’accesso a questa forma di prestazione lavorativa.
Ritorno in ufficio con cautela e attesa di un contratto per il lavoro agile
Certo che l’operazione rientro desti qualche preoccupazione persino a Palazzo Chigi lo si può percepire dalle indicazioni in merito alla ampia flessibilità di orario che le amministrazioni dovranno concedere ai loro dipendenti, onde evitare assembramenti per l’accesso agli uffici e sui sempre carenti trasporti pubblici.
Per il resto Brunetta e il governo si affidano all’attesa un po’ “messianica” del nuovo contratto sullo smart working che dovrebbe scaturire dal tavolo di confronto tra Aran e Cgil, Cisl e Uil e al Piano integrato della pubblica amministrazione che assorbirà i precedenti Pola, “Piani organizzativi del lavoro agile”.
In particolare, sul nuovo contratto in materia di lavoro agile, Brunetta annuncia da giorni un prossimo accordo con le organizzazioni sindacali, ma a lui, la trattativa pare ben lungi dall’essere alle battute finali e si registrano ancora le perplessità dei sindacati. C’è chi come la Uilpa sottolinea l’aspetto della necessaria gradualità nel rientro negli uffici dei lavoratori pubblici.
Ma soprattutto nel comunicato unitario delle organizzazioni del pubblico impiego di Cgil, Cisl e Uil si legge “…per noi è importante salvaguardare la contrattualizzazione del lavoro agile…” che tradotto dal sindacalese significa: se dobbiamo definire un contratto sullo smart working dateci una materia sulla quale contrattare e non chiudete per decreto gli spazi per una modalità di prestazione lavorativa che pure ha avuto una sua efficacia.

Ovvero: se il lavoro agile verrà sostanzialmente ridotto a una “riserva indiana” che graziosamente si concede a qualche dipendente, si perderà un’occasione di modernizzazione del lavoro e dell’organizzazione stessa della pubblica amministrazione in questo paese. D’altra parte che senso ha parlare di digitalizzazione e di spostamento delle banche dati pubbliche sulla tecnologia cloud se non si prevede poi anche un potenziamento del lavoro agile almeno rispetto alla situazione pre-pandemia?
Ma poi perché mai Brunetta si ostina ad assimilare il lavoro agile al telelavoro, dato che invece la prima modalità prevede che si possa lavorare a distanza certamente, ma in una combinazione variabile con il lavoro in presenza?
Rientro in ufficio: la clamorosa assenza della transizione ecologica
Soprattutto, però, quello che colpisce in questa vicenda del ritorno al lavoro in presenza di una parte rilevante dei 3,2 milioni di dipendenti pubblici decretato senza battito di ciglia dal governo Draghi, è l’assenza della transizione ecologica, intesa come concetto, ma anche come ministero.
Ma come, ogni giorno si snoda la litania del cambiamento climatico da scongiurare al più presto per evitare il tracollo dell’ecosistema e poi si decide di far tornare centinaia di migliaia di persone ogni giorno avanti e indietro dal lavoro senza un incremento serio del trasporto pubblico? E il ministro Roberto Cingolani non dice nemmeno un bah?
“In Italia una forte criticità deriva dal trasporto stradale che contribuisce alle emissioni totali di gas serra nella misura del 23% (di cui il 60% circa attribuibile alle autovetture), alle emissioni di ossidi di azoto per circa il 50% e alle emissioni di particolato per circa il 13% (Fonte: Ispra, 2017)”, la frase è riportata dal sito del ministero per la Transizione ecologica, ma davvero suona come un commento sarcastico al contraddittorio tramonto dello smart working nella pubblica amministrazione.
Stefano Paterna