Variazione sul tema. Stessa base musicale: il latino. Italiano fluido e in sintonia con gli accenti d’Emilia.
Iurie Parfenii è moldavo di origine. In Italia da oltre vent’anni. Vive in provincia di Reggio Emilia, a pochi chilometri da Parma capoluogo. La lingua non è una barriera. “Facile da imparare perché il rumeno e l’italiano hanno la stessa radice. E da noi si parla il rumeno, il moldavo e il russo.” E rilancia: “Molti parlano anche l’ucraino perché la frontiera è vicina.”
Dalla Moldova verso l’Europa: un flusso significativo di migranti. “Siamo fra i primi gruppi di stranieri per presenza numerica in Italia, oggi. Circa centoventimila persone regolarmente registrate.”
Ad arrivare per prime, le donne? “Non esattamente. Prima sono arrivati i criminali, poi – ribatte – le persone che potevano pagare il viaggio. I criminali hanno capito che nel nuovo scenario del capitalismo il denaro avrebbe prodotto altro denaro. Qualcuno ha aperto attività. Hanno creato isole, reti di relazioni sul territorio, innescato circuiti di aiuto, di lavoro irregolare. Dopo di loro sono arrivati quelli che potevano pagare. Almeno cinquemila euro. Soldi presi in prestito e restituiti con interessi molto alti.” Denaro che porta denaro senza costruire e promuovere integrazione, relazioni. La causa che induce lo spostamento di gran parte dei moldavi verso l’Europa è storica. Il crollo del Muro di Berlino: lo sfaldamento dell’Unione Sovietica si riverbera fino alle periferie dell’Impero.
Iurie Parfenii di formazione è medico veterinario. Pratica la professione per un periodo dopo l’Università. Poi la Storia fa una curva decisa e volta le spalle a ciò che fino a ieri era stata vita quotidiana. Il giovane veterinario riceve una proposta da parte del Ministero degli Interni per un lavoro nelle file della polizia economica, la Finanza. “Nei primi anni Novanta – continua – tutto è caduto in rovina. È arrivata da noi l’Europa: ha preso piede un capitalismo barbaro. Niente più relazioni tra le Repubbliche. Mancava la produzione. Mancava tutto. Era fallita l’Unione Sovietica. Erano i primi anni Novanta. Il primo momento critico lo abbiamo vissuto nel 1992. L’anno della guerra di Transnistria, dove sono intervenute le forze armate moldave, russe e rumene. I fatti di quegli anni sono noti alle cronache occidentali: il blocco della ferrovia, gli scioperi organizzati dalle donne. Bande armate, precarietà sociale, tensione alta. In Transnistria siamo andati per mantenere l’ordine pubblico. Quell’anno segna l’inizio di un periodo confuso. Era necessario controllare i processi produttivi. Lo Stato aveva bisogno di capire che cosa stava succedendo. Bande armate erano presenti su tutto il territorio: dal 1992 al 1999 ho lavorato per la Finanza. Io conoscevo i processi di lavorazione delle carni. La formazione universitaria che ho seguito era di tipo militare. Ci avevano formati ad ampio spettro.”
Un cittadino, un combattente. Dopo l’intervento del 1992, in Transnistria, in un crescendo di difficoltà Iurie Parfenii porta avanti il suo impegno professionale: “Era importante fare controlli perché la situazione era fortemente degenerata. Necessario capire dove fossero le lacune, controllare i processi produttivi e amministrativi. Ma eravamo arrivati ad un punto tale che per ricevere lo stipendio dovevamo pagare il pizzo a qualcuno. E stavamo lavorando per il Paese. Io avevo una famiglia e responsabilità.” È così che decide di fare un viaggio esplorativo. Prima, il visto all’ambasciata di Kiev, in Ucraina. Poi l’Italia, con prospettive di spostamento verso il Portogallo, nel caso di impossibilità di lavoro nello Stivale.
Contatti, relazioni, richieste di aiuto. “C’è un lavoro per me? Un’azienda agricola a Campegine. Forse una possibilità.” riprende il filo dei ricordi.
Un ritorno al primo lavoro, come veterinario? “Un nuovo inizio. Facevo di tutto. Pulivo le stalle, gli spazi esterni. Mi occupavo della mungitura. Facevo il vaccaro. Con un occhio attento agli animali. Mi bastava poco per capire le patologie, i problemi. La salute dei capi di bestiame è molto importante. Ho cominciato a lavorare da un gradino basso. Ma ho ricominciato. Questo era il mio obiettivo: l’impegno per mio figlio, per la mia famiglia.”
La scadenza del visto impone all’intervistato una scelta: il rientro nel Paese di origine oppure la permanenza in Italia senza documenti: “Volevo risolvere il problema economico. Il rientro avrebbe rallentato il raggiungimento dell’obiettivo e forse lo avrebbe impedito. Ho accettato il rischio.”
Cercare lavoro, a caccia di contatti. Le informazioni fanno la differenza. Le referenze sono un tam tam più forte del web. “Una persona moldava mi ha presentato una famiglia che stava cercando un lavoratore per assistere un malato. Io sono un lavoratore. Non mi era richiesto di fare diagnosi oppure di prescrivere. Ma di stare vicino ad una persona non autosufficiente e controllare la sonda che la nutriva. Mi sono presentato per quello che ero, per quello che sapevo fare. Ho detto che cosa avevo fatto in Italia e nel mio Paese. La famiglia mi ha accettato. Ho vissuto nella loro casa per un anno. E mi hanno aiutato ad ottenere il permesso di soggiorno.”
Pochi anni di permanenza, due tipi di lavoro: mansioni diverse che richiedono attitudine, attenzione. Il candidato Iurie Parfenii si presenta al colloquio per un’altra posizione. Introdotto dal datore di lavoro precedente. L’azienda è una metalmeccanica. La mansione richiesta è il collaudo di serbatoi.
Ancora un salto: “Ho fatto l’accademia militare. La nostra formazione è completa. Siamo addestrati per andare in guerra. Sul campo di battaglia si va con un mezzo militare, non a cavallo! Anche un medico deve essere in grado di riparare un mezzo militare in caso di necessità. Il collaudo dei serbatoi è un tipo di meccanica primitiva. Niente di complicato. Saldare, levigare con un flessibile. Per fare l’operaio non è necessario essere laureati. Si dice così.”
L’azienda è una grande fabbrica, con diversi stabilimenti. E centinaia di dipendenti provenienti da diversi Paesi. Una convivenza difficile? “Con me parlano tutti. Io parlo con tutti. Sono stato delegato sindacale per la Fiom-Cgil. Bisogna tenere conto che ogni Paese di provenienza ha caratteristiche specifiche. Che condizionano il modo di essere e di comunicare. Alcuni Paesi hanno un nervosismo di fondo, una reattività particolare alla quale bisogna prestare attenzione. Dipende da ciò che le persone hanno vissuto, da che cosa si aspettano. Dalla loro cultura.”
Come sono gli italiani? “Gli italiani sono morbidi, più paurosi. Tendono a stare zitti. Sembrano avere tante paure, non so di che cosa. Sono meno reattivi, diciamo così. Rispetto alle persone che arrivano dagli altri Paesi sono più educati. Non sono passati attraverso grandi conflitti. Forse per questo motivo reagiscono meno oppure non reagiscono.”
Gruppi di lavoro omogeni oppure compositi rispetto alla provenienza territoriale? “Le aziende organizzano i gruppi di lavoro mischiando le provenienze territoriali. Per evitare l’omogeneità e per evitare l’auto-organizzazione, per rompere la solidarietà.”
Che cosa unisce maggiormente un gruppo di lavoro? La lingua? La provenienza? “Ad unire i gruppi di lavoro è l’obiettivo da raggiungere, concreto e razionale. Ad esempio: il miglioramento del trattamento economico oppure il riconoscimento di servizi aziendali che rendono più sicuro ambiente di lavoro e permanenza al lavoro: la mensa, la pausa per il ristoro, la sicurezza. E stessi diritti per tutti, lavoratori in forza presso l’azienda e dipendenti delle agenzie per il lavoro. La sicurezza degli ambienti di lavoro è un tema fondamentale, del quale come delegato sindacale mi sono occupato spesso. La fabbrica si trova su un’importante arteria di comunicazione regionale. Quando decidevamo di manifestare e di organizzare uno sciopero, l’azione aveva una risonanza molto forte sul territorio. Eravamo consapevoli dell’impatto delle nostre azioni. E del nostro potenziale.”
Un’altra variazione sul tema lavoro, dopo anni di collaborazione con l’azienda metalmeccanica, oggi: “Sono dipendente a tempo indeterminato di un’agenzia per il lavoro. E lavoro in un grande magazzino. Ho gli stessi diritti e gli stessi doveri di un lavoratore assunto dall’azienda. Se dovessi perdere il lavoro, l’agenzia ha tutto l’interesse a cercare e a trovare per me un altro lavoro.”
L’esplorazione sul territorio continua? “Ho sostenuto un colloquio di lavoro di recente. Nessun segreto: l’ho detto anche agli operatori dell’agenzia per il lavoro. L’azienda richiedeva di lavorare a temperature molto basse, un lavoro faticoso e usurante. Io non ho paura di lavorare. Sono venuto in Italia per lavorare. Ma il lavoro deve essere riconosciuto regolarmente sotto il profilo economico e l’ambiente di lavoro deve essere sicuro. La fabbrica che ho visto non era così. Stavano cercando una persona disposta a lavorare in condizioni estreme. Una situazione di sfruttamento. Ho ringraziato. Ho salutato. Io sono un cittadino che lavora. Niente altro da aggiungere. A volte le aziende preferiscono le persone che non capiscono la lingua e che non chiedono, che non rivendicano i diritti. Capita. Ma non è accettabile. Questo fenomeno ha un nome: si chiama discriminazione.”
Lavoratori moldavi: una presenza massiccia in Italia: chi è rimasto in Moldova? “I contadini, le persone che non hanno possibilità di trasferirsi oppure che non vogliono farlo, le persone in difficoltà economica. Il nostro è un Paese agricolo. Molti appezzamenti di terreno sono stati venduti oppure affittati a grandi proprietari terrieri. Chi lavora la terra fa fatica. Viene riconosciuto loro davvero molto poco.”
La Moldova è presente nei pensieri di Iurie Parfenii? “Fra poco ritorno, per una vacanza. Del mio Paese mi mancano gli alberi, le strade anche se non sono asfaltate. Mi manca l’aria. Mi mancano le stagioni caratterizzate da colori forti e diversi: il giallo e il rosso delle foglie dell’autunno, la purezza della neve d’inverno, i pastelli della primavera. Mi mancano i passaggi netti da una stagione all’altra. Mi manca la lingua, il suono della poesia.”
Francesca Dallatana
In collaborazione con: www.gazzettadellemilia.it