È giunto il “D-day”. Il 15 ottobre è arrivato e con esso l’obbligo del possesso di green pass per accedere al luogo di lavoro. In queste prime ore, peraltro, nonostante le catastrofiche previsioni la situazione si presenta tranquilla, perfino nel punto più caldo: quello del “fronte del porto” di Trieste nel quale il Coordinamento dei lavoratori portuali di Trieste si riprometteva per oggi di bloccare le operazioni, ma che pare sceso a più miti consigli, consentendo l’accesso ai lavoratori provvisti certificazione verde.
Ma la situazione dovrà essere verificata ora per ora e comunque permane un gigantesco paradosso: come sia possibile che il settore della logistica della seconda potenza manifatturiera d’Europa (che prima della pandemia valeva 84,8 miliardi di euro) possa permettersi di arrivare a un passo dalla paralisi, senza preoccuparsene un po’ prima di una settimana.
In sede di riflessione economica ha davvero poco senso mettere in ordine le ragioni e i torti dei favorevoli e dei contrari al green pass. Quello che invece conta parecchio e che stando così le cose un governo responsabile avrebbe dovuto metterci mano prima come confermano sul versante sindacale le dichiarazioni del segretario della Uil Trasporti Claudio Tarlazzi rilasciate all’agenzia di stampa Adn Kronos: “Il governo ha gestito malissimo la questione dei porti italiani, che con la logistica sono un settore strategico per garantire lo spostamento delle merci nel nostro Paese. La raccomandazione dei ministri Giovannini e Lamorgese sulla gratuità dei tamponi solo per i porti non è una scelta giusta. Lo stesso problema lo ha l’autotrasporto con molti camionisti che vengono dai altri paesi dove la vaccinazione è ancora indietro rispetto al nostro, oppure hanno fatto vaccini non riconosciuti in Europa”.
La “soluzione tampone” e i vaccini non riconosciuti
Sorprende assai che il governo dei “migliori” non abbia tenuto presente la complessità di gestire 3,8 milioni di lavoratori non vaccinati secondo dati Gimbe, così come sorprende come non si sia affrontata prima la questione degli autotrasportatori provenienti da altri paesi e pertanto non, oppure, diversamente vaccinati.
Ma al netto dell’assurdità dei riconoscimenti burocratici della validità di vaccini che da mesi sono somministrati in giro per il mondo come il russo Sputnik V, il problema come indicato dal sindacalista della Uil avrebbe potuto avere una soluzione e, potrebbe averla ancora, nell’offerta di tamponi gratuiti ai lavoratori, non costringendoli a pagarseli con le proprie tasche.
In Europa i testi Covid-19 gratuiti non sono affatto una novità: per esempio, in Austria, in Spagna e in Polonia. D’altra parte, a prescindere dalla certificazione verde, l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha da tempo individuato nella capacità di tracciamento dei casi un fattore-chiave di lotta alla pandemia: se ne dovrebbe pertanto incentivare l’impiego e non condizionarlo al pagamento di una somma.
Ma quanti test Covid si fanno nel nostro Paese rispetto all’Europa?
Il 14 ottobre in Italia se ne sono effettuati 324mila 614. I dati dell’agenzia europea Ecdc aggiornati al 14 ottobre 2021 ci offrono un’immagine frastagliata della penisola: il Centro-Nord si trova in linea con i paesi che effettuano più test in Europa come la Francia e l’Olanda (tra i 2500 e i 4999 per ogni 100mila abitanti), ma le regioni del Sud (e le Marche) arrancano nella fasce più basse (la Basilicata è in quella tra i 300 e i 999,9 su ogni 100mila abitanti). Ovviamente, sono dati totalmente insufficienti se si vuole consentire il lavoro giornaliero a quasi quattro milioni di persone che almeno al momento non intendono vaccinarsi.
Che fare? L’esempio cinese
La Cina tra il 14 maggio e il 1° giugno 2020 riuscì a “tamponare” i dieci milioni di abitanti di Wuhan, ovvero una media di oltre 588mila persone al giorno, ma nel luglio se ne fecero sette milioni in soli tre giorni: ce ne informa “Il Sole 24 ore” non sospettabile di simpatie filocinesi. La tecnologia utilizzata da Pechino, ovvero il batch testing, la combinazione di più campioni alla volta, non dovrebbe essere ignota anche alle nostre latitudini dato che è riconosciuto anche dalla Fda statunitense.
Forse non è un caso che la Cina sia stata l’unico grande paese industriale nel mondo a chiudere l’anno della pandemia con una crescita positiva del prodotto interno lordo del 2,3%, nonostante il Sars-Cov-2 sia spuntato per primo da quelle parti.
È un azzardo suggerire all’inquilino di Palazzo Chigi di prendere nota?
Stefano Paterna