Il dibattito massmediatico in Italia sul salario minimo garantito per legge si sta svolgendo un po’ all’insegna della vendita di aria fritta. Gli schieramenti sono chiari per carità (Pd, Liberi e Uguali e Cinque Stelle favorevoli; Lega, FdI e Fi contrari), ma in quanto a contenuti si latita.
Al contrario invece, sarebbe il caso di parlarne di contenuti, dato che il salario minimo garantito offre nel concreto diversi rischi e diverse opportunità a chi eventualmente ne dovrebbe usufruire: ovvero i lavoratori, soprattutto i più poveri, da tempo denominati col solito anglicismo “working poors”.
In Parlamento le forze politiche del centro-sinistra hanno presentato tre testi con caratteristiche diverse, a partire dal disegno di legge presentato nel 2018 al Senato dai grillini, prima firmataria Nunzia Catalfo, già ministro del Lavoro nel governo Conte bis. In questo testo spicca la proposta divenuta bandiera del M5s dei nove euro lordi all’ora come minimo salariale per tutti i lavoratori, contemperato comunque dal rispetto dei contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali più rappresentative.
Poi, c’è stato il disegno di legge del Pd del marzo 2019, primo firmatario il senatore Tommaso Nannicini che si dovrebbe occupare appunto di salario minimo, ma non lo fissa e rinvia semplicemente ai contratti collettivi, laddove siano vigenti e, laddove non lo siano, demanda il compito a una “Commissione paritetica per la rappresentanza e la contrattazione collettiva” costituita da dieci rappresentanti dei lavoratori e dieci delle imprese, a capo della quale siederebbe il presidente del Cnel. L’ex ministro del Lavoro Tiziano Treu. Peraltro, nei minimi salariali non rientrerebbero i collaboratori coordinati e continuativi (cococo), scelta francamente discutibile.
Infine, il testo di Liberi e Uguali dell’aprile 2019, primo firmatario il senatore Francesco Laforgia che cerca di raggiungere un salario minimo garantito attraverso l’estensione della validità dei contratti collettivi a tutti i lavoratori, compresi in questo caso i cococo.
Salario minimo: l’Europa ha gettato il sasso nello stagno
A scatenare il dibattito però è evidentemente stata la direttiva della Commissione europea sul salario minimo del 28 ottobre 2020 e la seguente risoluzione del Parlamento europeo del 10 febbraio 2021 sulla riduzione delle disuguaglianze con particolare attenzione alla povertà lavorativa.
In realtà, il salario minimo garantito è presente in gran parte dei paesi membri dell’Ue (non esiste in Italia, Austria, Danimarca, Svezia, Finlandia e Cipro), tuttavia nel 2018 il 9,4% dei lavoratori europei era ancora rischio di povertà secondo i dati di Eurostat. Pertanto, bisogna capire come utilizzare lo strumento del salario minimo fissato per legge nella lotta allo sfruttamento e alla povertà di chi lavora.
In Germania, per esempio, l’introduzione di un tetto minimo per le retribuzioni a 8,5 euro l’ora nel 2015 ha prodotto una forte riduzione dei sottopagati: dai quasi quattro milioni nel 2014 a meno di 1,4 milioni quattro mesi dopo l’approvazione della legge come riportato in uno studio dell’Inapp. Nel 2019 i lavoratori tedeschi sono passati a un minimo di 9,19 euro. L’impatto è stato quindi positivo. Ma i livelli di salario fissati per legge in Europa sono assai vari e si può passare dai 312 euro della Bulgaria ai 2.142 del Lussemburgo secondo Eurostat.
Quindi, il livello al quale si fissa il salario minimo e i meccanismi con i quali lo si aggiorna sono determinanti per capire la funzione che svolgerà nei confronti dei lavoratori.
Salario minimo: sindacati e Confindustria uniti nella contrarietà
In Italia, il salario minimo fissato per legge ha l’inusuale capacità di mettere d’accordo gran parte delle organizzazioni sociali: in effetti, gli sono contrari sia i sindacati, sia Confindustria, ovviamente con motivazioni anche diverse.
La preoccupazione comune è che la fissazione di una retribuzione minima per via di legge finisca per smontare la contrattazione collettiva con la fuga delle aziende dagli impregni presi dalle parti sociali e la loro conseguente crisi di rappresentatività.
Si può sempre pensare che si può vivere anche senza sindacati e Confindustria, opinione condivisa da alcuni opinionisti da salotto di impronta liberale, tuttavia il problema non è costituito dall’avversione o meno per le organizzazioni rappresentative degli interessi sociali. Il problema concreto per chi lavora è che se la regolamentazione del salario minimo non viene fissata a un livello abbastanza alto, pari almeno ai minimi previsti dai contratti collettivi e senza possibilità di derogarli, porterà verso il basso tutta la scala delle retribuzioni, parificando sì le ineguaglianze del mercato del lavoro italiano, ma nella povertà della maggior parte delle persone.
La partita che si aprirà quando dalle chiacchiere si passerà agli atti legislativi concreti merita quindi il massimo dell’attenzione da parte del mondo del lavoro. Soprattutto, è sconsigliabile la firma di deleghe in bianco a chicchessia: parti sociali e forze politiche. È necessario un dibattito ampio che eviti i meccanismi di autodifesa delle organizzazioni sindacali, ma faccia crescere la coscienza che non può essere sufficiente il salario minimo garantito per combattere il fenomeno della povertà di chi lavora in settori come le cooperative sociali, i call center, nel comparto del lavoro domestico o tra i cococo. Serve anche una stagione di riunificazione degli ambiti contrattuali, spezzettati dalle leggi sul mercato del lavoro succedutesi negli ultimi venti anni.
Stefano Paterna